Antifascismo in Toscana

Montemaggio2017 – Festival Resistente | 2, 3, 4 giugno 2017
Parole e musiche su Memoria, Antifascismo e Costituzione

Montemaggio Festival Resistente, l’evento organizzato dall’ANPI Valdelsa per riflettere su memoria storica e antifascismo oggi, quest’anno dal 2 al 4 giugno 2017, alla quarta edizione, dedicata a Marisa Ferrari, presidente della sezione ANPI di Casole d’Elsa, scomparsa la scorsa domenica.
Tante le iniziative in programma tra concerti, presentazioni di libri, confronti e molto altro ancora.

Il Festival gode del patrocinio dei Comuni di Tavarnelle Val di Pesa, Monteriggioni, Poggibonsi, San Gimignano e Barberino Val d’Elsa. E’ realizzato in collaborazione con Associazione Mosaico, Circolo ARCI Buenavista, La Ginestra, Amici della Montagnola, Girografando il Mondo, ll Bosco Fuoritempo, Bottega Roots, Il Tortuga e Prima Materia, con il contributo di Spi Cgil, Bar dell’Orso e Tiemme – Toscana Mobilità. Media partner: Valdelsa.net.
Il programma

Il Festival comincia alle 17.30 di venerdì 2 giugno a Bottega Roots, in Piazza dei Popoli a Colle di Val d’Elsa, quando si parlerà di “Orizzonti di Resistenza. Pratiche di antifascismo tra Roma, Montemaggio e Buenos Aires”. Vi parteciperà il Comitato Madri per Roma Città aperta, l’associazione che, sulla scia delle Madri di Plaza de Mayo, raggruppa le donne unite da valori antifascisti a cui sono state uccisi i figli. Sono passati più di dieci anni da quando, sulla spiaggia di Focene, il 26enne Renato Biagetti venne ucciso dalle lame fasciste. Da allora il Comitato, fortemente voluto dal fratello, dalla mamma Stefania e dai suoi compagni, si occupa di portare avanti i sogni di Renato, le sue speranze, le sue idee.

L’incontro prosegue con una cena a buffet e il concerto antifascista de La Gerberette, il quartetto senese da poco uscito con l’album “L’apocalisse ci troverà in pigiama”.

Il Montemaggio Festival Resistente si sposta il 3 e il 4 giugno, a Casa Giubileo*. In questo luogo, che torna per l’occasione ad essere vissuto e frequentato, 19 giovani partigiani vennero barbaramente uccisi dai fascisti il 28 marzo del 1944.

Sabato 3 giugno alle 15.30 verranno presentati i libri Giovanni Pesce. Per non dimenticare di Laura Tussi e Fabrizio Cracolici dell’ANPI di Nova Milanese e Io che conosco il tuo cuore di Adelmo Cervi (figlio di Aldo, il terzo dei sette fratelli Cervi torturati e poi fucilati dai fascisti nel ’43). Alle ore 16.00 partirà il trekking partigiano, un appuntamento ormai fisso e irrinunciabile del Festival, per visitare, accompagnati da musiche e letture, i luoghi della memoria sul Montemaggio. A seguire, alle ore 17.30, La memoria ostinata. Il processo al Plan Condor e la lotta per la giustizia in America Latina. Vi parteciperanno Andrea Speranzoni, avvocato di parte civile che ha già partecipato alla scorsa edizione (nella foto in basso), e Alejandro Montiglio, figlio del capo scorta di Salvador Allende. Alle 19.00 Ginevra Di Marco, una delle voci femminili italiane più belle e amate, la madrina della musica impegnata e grande interprete delle canzoni popolari e d’autore, si esibirà nel concerto La Rubia canta la Negra, dedicato alla grande cantante argentina Mercedes Sosa. Chiude il secondo giorno di Festival la cena sociale (ore 20.00) e il concerto dei Suonatori della Boscaglia (ore 21.30).

Domenica 4 giugno è la volta della premiazione del concorso rivolto agli studenti valdelsani Da Montemaggio alla Costituzione, nel 70esimo anniversario dalla sua approvazione. L’appuntamento è alle ore 10.00. In giuria il partigiano Guido Lisi, il docente dell’Università di Siena Pietro Clemente, la disegnatrice Silvia Rocchi e la presidente del Comitato provinciale dell’ANPI Silvia Folchi. Alle 14.30 concerto dei CantaStoria il terzetto che canta la storia come forma di militanza. Alle 16.00 si parlerà invece di vecchi e nuovi fascismi, con il giornalista Guido Caldiron e Giovanni Baldini (ANPI Nazionale e Patria Indipendente), tra gli autori de La galassia nera su Facebook, un ampio e dettagliato inventario sul fascismo italiano in rete. Alle 17.30 Nessuno è straniero. Esperienza di migrazione, integrazione e lotta al razzismo, cui parteciperanno Baobab Experience, Eleonora Camilli (Redattore Sociale), Tommaso Sbriccoli (antropologo), oltre a tante associazioni del territorio che si occupano di accoglienza, dialogo e immigrazione. L’incontro è seguito dal concerto di Spazi Aperti, progetto del quale fanno parte cittadini di Montespertoli e richiedenti asilo, insieme al Malimba Trio. Infine, chiude il Festival la cena sociale e la jam partigiana, composta da musica, parole e canti.

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VIVA LE MADRI PER IL LIBERO DISSENSO


Oggi mio figlio Jacopo torna ad essere uomo libero…ha scontato la pena ai domiciliari
Sin dagli anni del liceo Jacopo ha dimostrato di voler far parte di quella parte di giovani generosi e sensibili che con determinazione chiedono diritti uguali per tutti.
Jacopo ha sempre rifiutato l’idea di esser parte di quella massa di giovani superficiali rispetto alle scelte della politica e indifferenti di fronte alle diseguaglianze sociali.
Così ha trovato il suo spazio nella politica attiva fatta di sacrifici, impegno, studio…
Il “sentire diverso” è quella capacità critica che porta a denunciare tutte quelle azioni politiche che non nascono per migliorare la vita dei più deboli, ma che servono esclusivamente al benessere delle “caste”.
Il suo dissenso è contro quelle realtà che da sempre sono volontà di ordine, di stabilità e di consenso per creare quella docilità riflessa che viene detta obbedienza.
I giovani generosi come Jacopo lottano, ci mettono la faccia e rischiano denunce e condanne esemplari tutti i giorni .
Il dissenso, anche se pagato a così caro prezzo, gli ha permesso di diventare uomo libero, determinato e di agire in modo responsabile spendendo le sue energie per e contrastando opere inutili e costose.
Jacopo conosce il valore del dissenso e lo ha preferito ad una condizione di servitù.
Leggendo la favola di Fedro ha preferito la parte del lupo magro ma libero a quella del cane grasso ma alla catena.
Con lui per lui, in questo lungo anno, ho sofferto ma mai gli chiederò di abbassare la testa e di pensare solo a se stesso, il suo agire mi rende orgogliosa.
Un solo consiglio mi sento di dare: ”sii prudente”.

Diana Paoli

Torino, 7 maggio 2017

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Aparicion con vida. Le Madri Argentine resistono da quarant’anni.

Ed eccoci qui, finalmente insieme alle madres de Paza de Majo. La maternità socializzata. I dolori uniti in una resistenza alle violenze , alle aggressioni, alle torture e alle morti. I figli uccisi dal fascismo e dallo Stato in ogni parte del mondo, sono qui, insieme ai desaparecidos argentini, riportati in vita da madri e da nonne che resistono da 40 anni, accompagante da altre madri e donne che resistono alla perdita della memoria antifascista, alla mancanza di verità e di giustizia.

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20 marzo 1994 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Nessuna giustizia, nessuna verità

“Con il cuore pieno di amarezza, come cittadina e come madre ho dovuto assistere alla prova di incapacità data, senza vergogna, per ben ventitré anni dalla Giustizia italiana e dai suoi responsabili, davanti alla spietata esecuzione di mia figlia Ilaria e del suo collega Miran Hrovatin. Al dolore si è aggiunta l’umiliazione di formali ossequi da parte di chi ha operato sistematicamente per occultare la verità e i proventi di traffici illeciti. Da ultimo, dopo la sentenza della Corte d’Appello di Perugia mi ero illusa che i nuovi elementi di prova inducessero la procura della Repubblica ad agire tempestivamente per evitare nuovi depistaggi e occultamenti.
Non posso tollerare ulteriormente il tormento di un’attesa che non mi è consentita né dall’età né dalla salute. Per questo motivo ho deciso di astenermi d’ora in avanti dal frequentare uffici giudiziari e dal promuovere nuove iniziative. Non verrà però meno la mia vigilanza contro ogni altro tentativo di occultamento. Ringrazio i colleghi di Ilaria, la Federazione Nazionale della Stampa e l’opinione pubblica per essermi stati vicini”. Giuliana, madre di Ilaria Alpi.

Canzoni di guerra

ILARIA
di Milo Bugnara

Quel lembo di terra
ad est del continente
confuso da sempre
e inquinato da chi
per tangenti si vende

cooperare vuol dire produrre
e produrre vuol dire morire
loro infatti son morti più volte
come chi muore
per la verità.

loro infatti son morti più volte
prima darmi poi di commissioni
parlamentari
qualcuno li ha detti in vacanza e la cosa
si commenta da sé

Ilaria, Ilaria

Troppe mani hanno aperto i bagagli
troppi indagini hanno occultato
burattini di stato han capito
ed il sismi, a suo modo,
ti ha sistemato

Livorno, Garoe,
Mogadisho, Bosaso
le tappe son queste qua
la Shifco ha solcato il mare dei dollari
ma nella stiva cosha?

Ilaria, Ilaria

La tua idea è stata fatta tacere per sempre
un agguato studiato e ordinato da qualche potente
che oltre ad averti rubato la vita
ora calpesta
il ricordo di te

Il ricordo di Miran e te


Da pochi giorni è disposizione di tutti i cittadini il sito https://archivioalpihrovatin.camera.it/ dove si possono trovare gran parte dei lavori di Ilaria, anche inediti, che testimoniano il profilo di una giovane donna appassionata della vita e del suo lavoro. Ilaria è un esempio forse anche perché in lei ognuno può cercare, trovare qualcosa di sé: l’interesse per i mondi dentro e fuori il nostro mondo, l’indignazione per le ingiustizie e le atrocità che continuano ad accadere, l’amore per ciò che si fa, per la conoscenza, per la cultura. L’amore per tutto quello che avvicina le persone ad altre persone, vive o morte….
Aprono il sito gran parte dei lavori di Ilaria, anche inediti, che testimoniano il profilo di una giovane donna appassionata della vita e del suo lavoro. Questi filmati così come i lavori scritti di Ilaria, i racconti che di lei hanno fatto i suoi genitori, alcuni colleghi e amici ci hanno fatto scoprire molte cose di lei. Ilaria è un esempio forse anche perché in lei ognuno può cercare, trovare qualcosa di sé: l’interesse per i mondi dentro e fuori il nostro mondo, l’indignazione per le ingiustizie ele atrocità che continuano ad accadere, l’amore per ciò che si fa, per la conoscenza, per la cultura. L’amore per tutto quello che avvicina le persone ad altre persone, vive o morte.
da Ventitré anni senza Ilaria Alpi. Ventitré anni senza verità di Mariangela Gritta Grainer 19 marzo 2017 (http://www.unita.tv/opinioni/ventitre-anni-senza-ilaria-alpi-ventitre-anni-senz-a-verita/)

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18 marzo 1978 Fausto e Iaio, per sempre ragazzi

«Era una giornata primaverile, soleggiata, il ricordo è ancora vivo in me . La notizia della morte di mio fratello mi colpì in maniera atroce. Il problema più grande era quello di dirlo ai miei genitori, che non avevano mai sopportato che facessimo politica e che consideravano Milano un posto pericoloso. Dopo la morte di Iaio non parlarono con i giornalisti, non reagirono, si chiusero in se stessi. Io al contrario, ho provato portare avanti questa battaglia. Con me tanti amici di Fausto e Iaio, tante persone desiderose di giustizia, ma soprattutto una donna che fin da subito ha mobilitato tutte le sue energie per cercare la verità, la madre di Fausto, Danila».
Maria Iannucci, sorella di Iaio

«Ma poi questi ragazzi sono stati abbandonati. Fausto è nato a Trento, città da cui sono originaria. Ci siamo poi trasferiti in Germania e infine a Milano, dove mio figlio ha trovato la morte. Era un ragazzo davvero meraviglioso, un bravissimo studente, amato da tutti. Ci sono stati grandi funerali, ma poi in molti li hanno dimenticati. Prima di tutto lo Stato, le istituzioni. Che non hanno voluto fare giustizia».
Danila, madre di Fausto
,
“L’archiviazione definitiva è stata un brutto colpo: avere appreso che pur con forti indizi a carico di tre esponenti della destra neofascista legati alla banda della Magliana, Bracci, Carminati e Corsi, non è possibile procedere ad un processo? è stato un pugno nello stomaco. Quello che rimane è un delitto inquietante e insoluto. Non ci resta che tenere vivi i loro ideali».
Maria Iannucci, sorella di Iaio

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16 marzo 2003 Rachel Corrie


27 febbraio 2003
(alla madre)

Vi voglio bene. Mi mancate davvero. Ho degli incubi terribili, sogno i carri armati e i bulldozer fuori dalla nostra casa, con me e voi dentro. A volte, l’adrenalina funge da anestetico per settimane di seguito, poi improvvisamente la sera o la notte la cosa mi colpisce di nuovo: un po’ della realtà della situazione.

Ho proprio paura per la gente qui. Ieri ho visto un padre che portava fuori i suoi bambini piccoli, tenendoli per mano, alla vista dei carri armati e di una torre di cecchini e di bulldozer e di jeep, perché pensava che stessero per fargli saltare in aria la casa. In realtà, l’esercito israeliano in quel momento faceva detonare un esplosivo nel terreno vicino, un esplosivo piantato, a quanto pare, dalla resistenza palestinese. Questo è nella stessa zona in cui circa 150 uomini furono rastrellati la scorsa domenica e confinati fuori dall’insediamento mentre si sparava sopra le loro teste e attorno a loro, e mentre i carri armati e i bulldozer distruggevano 25 serre, che davano da vivere a 300 persone. L’esplosivo era proprio davanti alle serre, proprio nel punto in cui i carri armati sarebbero entrati, se fossero ritornati. Mi spaventava pensare che per quest’uomo, era meno rischioso camminare in piena vista dei carri armati che restare in casa. Avevo proprio paura che li avrebbero fucilati tutti, e ho cercato di mettermi in mezzo, tra loro e il carro armato. Questo succede tutti i giorni, ma proprio questo papà con i suoi due bambini così tristi, proprio lui ha colto la mia attenzione in quel particolare momento, forse perché pensavo che si fosse allontanato a causa dei nostri problemi di traduzione.

Ho pensato tanto a quello mi avete detto per telefono, di come la violenza dei palestinesi non migliora la situazione. Due anni fa, sessantamila operai di Rafah lavoravano in Israele. Oggi, appena 600 possono entrare in Israele per motivi di lavoro. Di questi 600, molti hanno cambiato casa, perché i tre checkpoint che ci sono tra qui e Ashkelon (la città israeliana più vicina) hanno trasformato quello che una volta era un viaggio di 40 minuti in macchina in un viaggio di almeno 12 ore, quando non impossibile. Inoltre, quelle che nel 1999 erano le potenziali fonti di crescita economica per Rafah sono oggi completamente distrutte: l’aeroporto internazionale di Gaza (le piste demolite, tutto chiuso); il confine per il commercio con l’Egitto (oggi con una gigantesca torre per cecchini israeliani al centro del punto di attraversamento); l’accesso al mare (tagliato completamento durante gli ultimi due anni da un checkpoint e dalla colonia di Gush Katif). Dall’inizio di questa intifada, sono state distrutte circa 600 case a Rafah, in gran parte di persone che non avevano alcun rapporto con la resistenza, ma vivevano lungo il confine.

Credo che Rafah oggi sia ufficialmente il posto più povero del mondo. Esisteva una classe media qui, una volta. Ci dicono anche che le spedizioni dei fiori da Gaza verso l’Europa venivano, a volte, ritardate per due settimane al valico di Erez per ispezioni di sicurezza. Potete immaginarvi quale fosse il valore di fiori tagliati due settimane prima sul mercato europeo, quindi il mercato si è chiuso. E poi sono arrivati i bulldozer, che distruggono gli orti e i giardini della gente. Cosa rimane per la gente da fare? Ditemi se riuscite a pensare a qualcosa. Io non ci riesco. Se la vita e il benessere di qualcuno di noi fossero completamente soffocati, se vivessimo con i nostri bambini in un posto che ogni giorno diventa più piccolo, sapendo, grazie alle nostre esperienze passate, che i soldati e i carri armati e i bulldozer ci possono attaccare in qualunque momento e distruggere tutte le serre che abbiamo coltivato da tanto tempo, e tutto questo mentre alcuni di noi vengono picchiati e tenuti prigionieri assieme a 149 altri per ore: non pensate che forse cercheremmo di usare dei mezzi un po’ violenti per proteggere i frammenti che ci restano? Ci penso soprattutto quando vedo distruggere gli orti e le serre e gli alberi da frutta: anni di cure e di coltivazione. Penso a voi, e a quanto tempo ci vuole per far crescere le cose e quanta fatica e quanto amore ci vuole. Penso che in una simile situazione, la maggior parte della gente cercherebbe di difendersi come può. Penso che lo farebbe lo zio Craig. Probabilmente la nonna la farebbe. E penso che lo farei anch’io.

Mi avete chiesto della resistenza non violenta. Quando l’esplosivo è saltato ieri, ha rotto tutte le finestre nella casa della famiglia. Mi stavano servendo del tè, mentre giocavo con i bambini. Adesso è un brutto momento per me. Mi viene la nausea a essere trattata sempre con tanta dolcezza da persone che vanno incontro alla catastrofe. So che visto dagli Stati Uniti, tutto questo sembra iperbole. Sinceramente, la grande gentilezza della gente qui, assieme ai tremendi segni di deliberata distruzione delle loro vite, mi fa sembrare tutto così irreale. Non riesco a credere che qualcosa di questo genere possa succedere nel mondo senza che ci siano più proteste. Mi colpisce davvero, di nuovo, come già mi era successo in passato, vedere come possiamo far diventare così orribile questo mondo. Dopo aver parlato con voi, mi sembrava che forse non riuscivate a credere completamente a quello che vi dicevo. Penso che sia meglio così, perché credo soprattutto all’importanza del pensiero critico e indipendente. E mi rendo anche conto che, quando parlo con voi, tendo a controllare le fonti di tutte le mie affermazioni in maniera molto meno precisa. In gran parte questo è perché so che fate anche le vostre ricerche.

Ma sono preoccupata per il lavoro che svolgo. Tutta la situazione che ho descritto, assieme a tante altre cose, costituisce un’eliminazione, a volte graduale, spesso mascherata, ma comunque massiccia, e una distruzione, delle possibilità di sopravvivenza di un particolare gruppo di persone. Ecco quello che vedo qui. Gli assassini, gli attacchi con i razzi e le fucilazioni dei bambini sono atrocità, ma ho tanta paura che se mi concentro su questi, finirò per perdere il contesto. La grande maggioranza della gente qui, anche se avesse i mezzi per fuggire altrove, anche se veramente volesse smetterla di resistere sulla loro terra e andarsene semplicemente (e questo sembra essere uno degli obiettivi meno nefandi di Sharon), non può andarsene. Perché non possono entrare in Israele per chiedere un visto e perché i paesi di destinazione non li farebbero entrare: parlo sia del nostro paese che di quelli arabi. Quindi penso che quando la gente viene rinchiusa in un ovile – Gaza – da cui non può uscire, e viene privata di tutti i mezzi di sussistenza, ecco, questo credo che si possa qualificare come genocidio. Anche se potessero uscire, credo che si potrebbe sempre qualificare come genocidio. Forse potreste cercare una definizione di genocidio secondo il diritto internazionale. Non me la ricordo in questo momento. Spero di riuscire con il tempo a esprimere meglio questi concetti. Non mi piace usare questi termini così carichi. Credo che mi conoscete sotto questo punto di vista: io do veramente molto valore alle parole. Cerco davvero di illustrare le situazioni e di permettere alle persone di tirare le proprie conclusioni. Comunque, mi sto perdendo in chiacchiere. Voglio solo scrivere alla mamma per dirle che sono testimone di questo genocidio cronico e insidioso, e che ho davvero paura, comincio a mettere in discussione la mia fede fondamentale nella bontà della natura umana.
Credo che sia una buona idea per tutti noi, mollare tutto e dedicare le nostre vite affinché ciò finisca. Bisogna che finisca. Credo che sia una buona idea per tutti noi, mollare tutto e dedicare le nostre vite affinché ciò finisca. Non penso più che sia una cosa da estremisti. Voglio davvero andare a ballare al suono di Pat Benatar e avere dei ragazzi e disegnare fumetti per quelli che lavorano con me. Ma voglio anche che questo finisca. Quello che provo è incredulità mista a orrore. Delusione. Sono delusa, mi rendo conto che questa è la realtà di base del nostro mondo e che noi ne siamo in realtà partecipi. Non era questo che avevo chiesto quando sono entrata in questo mondo. Non era questo che la gente qui chiedeva quando è entrata nel mondo. Non è questo il mondo in cui tu e papà avete voluto che io entrassi, quando avete deciso di farmi nascere. Non era questo che intendevo, quando guardavo il lago Capital e dicevo, “questo è il vasto mondo e sto arrivando!” Non intendevo dire che stavo arrivando in un mondo in cui potevo vivere una vita comoda, senza alcuno sforzo, vivendo nella completa incoscienza della mia partecipazione a un genocidio.

Sento altre forti esplosioni fuori, lontane, da qualche parte. Quando tornerò dalla Palestina, probabilmente soffrirò di incubi e mi sentirò in colpa per il fatto di non essere qui, ma posso incanalare tutto questo in altro lavoro. Venire qui è stata una delle cose migliori che io abbia mai fatto. E quindi, se sembro impazzita, o se l’esercito israeliano dovesse porre fine alla loro tradizione razzista di non far male ai bianchi, attribuite il motivo semplicemente al fatto che io mi trovo in mezzo a un genocidio che io anch’io sostengo in maniera indiretta, e del quale il mio governo è in larga misura responsabile.
Voglio bene a te e a papà. Scusatemi il lungo papiro. OK, uno sconosciuto vicino a me mi ha appena dato dei piselli, devo mangiarli e ringraziarli.
Rachel



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16 marzo 2003 Davide Cesare Dax

perche lui?lui era un ragazzo fortunato , una di quelle poche persone che aveva la famiglia unita con papà e mamma che giurando amore davanti all altare portano avanti finchè morte non li separi. lui aveva una figlia che lo adorava e riponeva la sua vita nel suo pugno, sempre chiuso xk doveva lottare ogni giorno.. ma forse anche perchè lo sterzo del suo camion era troppo duro da tenere con il solo palmo. la figlia gli assomiglia molto. destino?
si perché ora lei ha il compito di vivere anche per lui ..lui che in carne ed ossa non ce … ma non ci ha lasciati perché lui é in ogni bandiera rossa al vento. lui é in ogni pugno chiuso che schiaccia ogni punto nero che gira per questo povero paese. lui é davide.. il mio grande papà.
(Jessica)

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Agli angeli ribelli

In ricordo di Francesco Lorusso
ucciso da un carabiniere a Bologna l’11 marzo 1977

Ti ho visto scivolare verso il fondo di un’epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di tutti quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente. E noi, che ci siamo salvati dal finire insanguinati e senza fiato, noi,che abbiamo schivato i troppi anni di galera e le fughe solitarie da un Paese all’altro, noi, combattenti di strada congedati dalla Storia, in fila per dieci coi bastoni tra le dita e la “Hazet 36” nascosta da maglioni sempre più larghi, noi, dicevo, adesso vorremmo scampare anche a ciò che ci perseguita in silenzio, al ricordo del tuo viso un po’ strappato e all’impotenza di non avere più la forza per….
E mi sembra di sentirla la domanda, su quale forza possa contare ancora chi la forza l’ha dispersa nel vivere dispersi, rinchiusi a due alla volta nelle stanze dell’attesa, di uno scontro a fuoco oggi e di una rivoluzione post-domani, fino a quando la porta si apriva all’improvviso e al posto della rossa primavera entrava l’aria cupa e violenta delle teste di cuoio. E tutti noi rimasti fuori, a guardare di lontano quella guerra di nervi più scoperti di altri, ma non sapendo calcolare le distanze tra un bene presunto e un male altrettanto presunto, perché le nostre ragioni erano anche le loro e loro, in fondo, non erano altro che noi cento metri più avanti, noi trasformarti nell’avanguardia di nessuno, noi devastati dagli stessi lutti – eppure disarmati di fronte alla protervia dello Stato – e infine noi all’ennesima potenza, convinti che bastasse qualche geometria a rendere più solida la nuova casa della Storia. Chissà, anche la tua mente – come la nostra, d’altronde – sarà stata martellata per giorni e giorni da quella sequenza di fotogrammi sparsi, stampati su un giornale d’altri tempi, con quel gippone allo stato brado che rincorre i marciapiedi, e poi i compagni uno per uno, e il corpo di Giannino sbalzato sulla strada, e il suo cervello schizzato a dieci metri dalla sua figura inanimata, e il cuore rosso di Milano mangiato dai nemici di ogni cambiamento e sputato addosso alla nostra pazienza, col chiaro intento di farcela svanire. Ed è svanita a tanti la pazienza, in fondo a un mese di agguati e rappresaglie – la campagna elettorale del ’75 -, una dozzina i morti dalla nostra parte, persino il giorno della festa, e dalla parte loro neanche un graffio, con tutti noi a masticare amaro, a discutere per ore di come farla pagare a quei bastardi, se oggi, domani o un giorno che verrà, se a mani nude e solo un casco in testa o con qualcosa in tasca che pareggiasse i conti. Alla fine ognuno ha scelto per se stesso, lasciando agli altri il ruolo dei conigli o delle lepri, di chi ha paura e di chi corre troppo in fretta, ma segnati entrambi dallo stesso destino. Ed è un destino in bianco e nero, forse più nero che bianco, ma sempre migliore del tuo, che da quegli anni ti aspettavi un po’ di luce e hai avuto, invece, il buio di una notte senza fine. Dentro quella notte, nascosti all’ombra di quel famoso ultimo sole, ci stiamo un po’ anche noi, ma non tutti per la verità, perché nel tempo i colori possono sbiadire, e le fedi assolute vacillare, e il richiamo di troppe foreste far perdere l’orientamento anche ai veterani esperti, così che in tanti hanno lasciato un pezzo della propria vita per abbracciarne un’altra, comoda e serena come quella dei nemici di una volta. Tu non l’avresti mai fatto, ne sono certo, e adesso il tuo esempio pesa sui percorsi di chi crede che il tempo possa cancellare anche le tracce di un vecchio proclama, in base al quale “per i compagni uccisi non basta il lutto” – te lo ricordi? Quante volte l’avrai scandito anche tu… – perché alla fine, signori dello Stato, “pagherete caro, pagherete tutto!”, e invece loro non hanno pagato un bel niente e adesso, magari a doppia firma con qualcuno dei “nostri”, scrivono articoli di sdegno e di allarme ad ogni vetrina rotta, ad ogni palloncino pieno di vernice catapultato sulle visiere dei caschi blu, ad ogni gesto dissacrante compiuto da qualche nuovo ribelle. E giù inchiostro velenoso sugli anni Settanta che stanno per tornare, sui giorni bui che nessuno vorrebbe rivedere e sul piombo sparato da una parte sola – sempre la stessa, la nostra – come se nei caricatori delle armi loro ci avessero infilato i cartuccini rossi e gialli della Upim, al posto di quei proiettili color ottone con cui hanno interrotto anche la tua corsa. Dov’è finita la tante volte gridata “giustizia del proletariato”, che faceva rima con il “sarai vendicato”, riferito a questo a quell’altro militante assassinato? E dove siamo finiti noi, che ad ogni appello a far qualcosa ci schieravamo in testa al bisogno di rilanciare le utopie, con i cordoni compatti a separare i mondi contrapposti, quei cordoni disegnati con la riga e con la squadra, così da spaventare i celerini con una sola mossa, le chiavi inglesi alzate verso il cielo e il grido, scandito all’unisono, “pi-esse esse-esse”? Al nostro passaggio si aprivano le acque, e chi aveva un motivo per temerci tirava giù, in fretta e furia, le serrande dei negozi, e abbassava lo sguardo per non far vedere la paura, e affrettava il passo covando un odio da delegare ai poliziotti. Più tardi s’andava pure in osteria, a ridere delle gambe levate di commercianti incravattati e a brindare alla guerriglia di questo o di quel Paese lontano, lanciandosi – da un tavolo all’altro, da un gruppo all’altro – slogan e canti ironici, così da rafforzare il senso dell’appartenenza, ma col sorriso, un po’ stirato, sulle labbra (“Noi siamo quelli di Lc, Lotta continua sì, facciamo la rivoluzione il martedì, uaah uaah… “ subito contrastato dal gesto mimato di un finto pallone da basket che rimbalzava tra terra e mano al suono di “Pdup, pup, pop, pap, nap!”, o dal sarcasmo con cui, sull’aria di una vecchia sigla di “Canzonissima”, si demoliva il militarismo dei compagni di Potop cantando: “Sarà capitato anche a voi, di fare la lotta di classe, gridare potere alle masse, potere potere, potere operaio, bum bum bum bum bum, bum bum bum bum!”). E dopo l’osteria – e quel bere sempre un po’ di più di quanto fosse necessario, ammesso e non concesso che abbia senso fissare dei limiti quando si parla di noi dopo l’osteria, dicevo, dopo quel rito capace di scaricare le tensioni e, per una sera, di farci recuperare la nostra adolescenza, c’era il problema di chi portava a casa chi, di quell’ultimo costretto ad aprire il portone da solo, magari in un quartiere sbagliato e di un altro colore. E allora – sarà successo anche a te, chissà? – si saliva sulle macchine a quattro per volta (che si trattasse della piccola Cinquecento o della fluttuante Due Cavalli, della mitica R4 o della più rapida Centoventisei) per poi perlustrare le strade strette intorno alle nostre abitazioni, in modo tale da intercettare le auto civetta della squadra politica, o quelle più lussuose dei neri della zona. Alla fine, ridotti i rischi al semplice imprevisto, cominciava il tour del ritorno a casa, fino alla quotidiana paranoia del mattino dopo, quando si usciva solo se dall’alto di una finestra la via sembrava sgombra e se, prima di chiudersi il cancello alle spalle, lo sguardo aveva indagato per benino a destra come a sinistra. Lo so, siamo costretti al ricordo e non ci piace, perché il vivere di oggi non è proprio il vivere che ci si aspettava, e so anche che siam finiti così fuori sintonia rispetto al mondo da non aver più voglia di cercare nemmeno le stazioni, come ad aver perso le frequenze una volta per tutte. E’ vero, non dovrei dirlo a te, ché magari attendi il giorno giusto nascosto in un altro sentimento, ma un po’ ci si deprime a confrontare le idee col nulla, la rabbia con la rassegnazione, lo spirito della rivolta con quello della resa e i grandi temi con il chiacchiericcio. In più – lo sai tu e lo sanno tutti quelli come te – certe promesse fatte a caldo bisognerebbe mantenerle, pena il sentirsi traditori per il resto della vita, e bastardi a mille, e anche un po’ cialtroni, semmai qualcuno se ne possa ancora vergognare. Traditori… è una parola che solo a pronunciarla mi sembra troppo vecchia (non avevamo detto, nel corso di questi anni, che tradire se stessi è pur sempre un segno d’apertura? Sì, d’accordo, ma tradire gli altri che cos’è?), eppure sento che la debbo usare, scarnificata da tutta la pelle malata del Novecento, ripulita dall’uso manicheo che fu di tanti, alleggerita da un pregresso che tuttora ce la rende odiosa, sì, certo, ma la debbo usare, perché non ce ne sono altre in grado di spiegare quel comportarsi a fasi alterne, oggi tutti d’un pezzo e domani sgretolati dalla testa ai piedi. Solo che tradire chi, come reazione, non può neppure sputarti in faccia è molto peggio del compiere qualunque altro tradimento, e se questo termine continua a infastidirmi (è chiaro, penso all’uso che ne hanno fatto per decenni gli stalinisti di ogni ordine e grado…) ancor più m’infastidisce riascoltare la vecchia nenia sul fatto che allora avevamo vent’anni e adesso cinquanta e anche di più, e quindi, secondo la stessa litania, non c’è nulla di male a dimenticare ciò che si è urlato più di trent’anni prima, magari col sangue agli occhi e un subbuglio in fondo al cuore. Li ho sentiti – cosa credi? – tagliare corto grazie al cinismo di certe frasi, del tipo “c’è andata bene, alcuni sono morti e altri no, e allora godiamoci senza tante storie il fatto di essere ancora qui, vivi, e facciamola finita con le celebrazioni a tempo scaduto e con i sogni che non si realizzeranno mai!”. Tu non c’eri – anche se c’eri, eccome, assieme a noi – ma loro sì, in quella via Rizzoli stracolma di facce messe al bando dalla “sinistra” dei gasisti e dei democristi, di qua i tuoi compagni, i “soliti provocatori pagati dai padroni” – compresi i tanti che non ti avevano mai visto – e di là, ad occupare la piazza fin dal mattino, tutto l’arco costituzionale, un arco senza più frecce e senza più colori, con Zangherì/Zangherà (ma stavolta non “ride tutta la città”, eh no!) assieme alle divise e ai tanti “uomini delle istituzioni”, sicuri di se stessi fino al masochismo. E se adesso riguardo le foto di quella marea umana stretta tra le torri e Piazza Re Enzo, se con la lente cerco d’ingrandire i volti, be’, ne riconosco molti di coloro i quali, da tempo, hanno smesso d’inseguire qualunque cosa fosse in
movimento. Sono diventati adulti, caro mio, o almeno così dicono ogni volta che qualcuno chiede loro di tuffarsi nel passato, ma solo per un istante, perché hanno perso l’abitudine a restarsene in apnea mentre il mondo, sotto i loro occhi, s’inabissa. E quando riemergono fanno no con la testa, come a dire che là sotto, dove il passato si confonde con ciò che s’intende ricordare, non c’è niente d’importante da recuperare, e se anche qualcosa ci fosse ormai sarebbe così appesantita dalle incrostazioni da impedire a chiunque di riportarla in superficie, con buona pace di chi ama dissociarsi da se stesso ad ogni cambio
di stagione.
Più avanti, dopo quel lungo trambusto d’emozioni, ti ho visto sul fronte di mille manifesti, per più di trenta primavere. Tu sempre te stesso, col viso tirato di chi fa parte di qualcosa, e noi sempre di meno – senza un granché di cui sentirci parte – a ripetere il tuo nome a bassa voce e ad osservare con fastidio certi fiori che giungono in ritardo, a posarsi sui rimorsi, o, forse, ad abbellire le coscienze. Dove siano finiti i molti assenti credo tu l’abbia già capito, senza bisogno che io insista su quanto mi deprima il solo farci i conti. Di cosa siamo noi adesso, noi pochi a stare qui a tanti anni di distanza, davvero non saprei che dirti, se non fermandomi a pensare più di quanto il tempo mi permetta. Veniamo qui in tuo nome, sotto la lapide che ti ricorda, chi ti ha conosciuto e chi no, chi ha condiviso le giornate con te e chi, semplicemente, ti ha vissuto come un simbolo di ciò che era giusto fare e non siamo stati in grado di portare in fondo. Si arriva alla spicciolata, verso le nove e mezza dell’undici marzo di ogni anno, in quella strada stretta e porticata, l’ultima ad essersi fissata nei tuoi occhi. No, stai tranquillo, non c’è aria di circostanza – non da parte nostra, almeno – e si riesce persino a sorridere dei fianchi che s’allargano e dei capelli che svaniscono o s’imbiancano, e di quella ruga in più dell’anno precedente, spuntata all’improvviso a rammentarci che di tempo, da quel giorno, ne è trascorso molto più di quanto, a te, abbiano concesso di passarne in vita. Poi ci sono i baci e gli abbracci, le domande su quella compagna malata e su quel compagno che se n’è andato troppo presto, e pensare che l’anno scorso era qui con noi, e i figli vanno ancora a scuola, sì, li aveva avuti tardi, e adesso a loro chi ci pensa, perché la madre, insomma, si sa che è un po’ depressa, be’, mi raccomando, se c’è bisogno di tirar fuori un po’ di soldi io ci sono, fatemi sapere… . Un quarto d’ora dopo, quando ad occhio e croce sembriamo un centinaio, a taccuini aperti e a telecamere schierate arriva il momento dei discorsi, che, chissà perché, non spettano mai ai tuoi compagni, bensì agli “esponenti delle istituzioni”, a persone che in quei giorni non stringevano le nostre mani, anzi, ti dirò che forse qualcuna di loro se ne stava a difendere il sacrario dei caduti partigiani, pensa te che assurdità, a proteggerlo da noi, che i partigiani li amavamo sopra tutto e sopra tutti, malgrado la loro distanza dalla nostra idea di praticare una nuova resistenza. E così, quando
comincia il rito delle frasi fatte, da dietro le colonne cominciamo a mugugnare, ma sottovoce, tanto per fare, perché sappiamo bene che, in fondo in fondo, la loro presenza è una nostrapiccola vittoria, che il loro essere qui è anche un modo di scusarsi per averci chiamato “untorelli”, che la città è ormai pacificata e… eppure si fa fatica a mandar giù quel rospo, e poiché bisogna farlo, quel borbottare all’aria aperta ci aiuta, ogni anno, nello sforzo. Ecco cosa siamo, caro mio, e non credere si possa parlare a nome e per conto di questi o di altri cento, perché se andiamo a scavare troviamo tante sfumature, che una volta emerse diventano di pietra, piccole differenze destinate a costruire muri che non vorremmo più vedere, e invece ci tocca. Poi ce ne andiamo alla spicciolata: qualcuno, con l’ultima coroncina nelle mani, diretto al giardino che finalmente porta il tuo nome (sì, è un posto sfigato, non ci passa mai nessuno, ma è meglio di niente…), tutti gli altri sulla strada di casa o del luogo di lavoro, perché sta per scadere il permesso di due ore, quello richiesto ogni anno nello stesso giorno senza che il padrone, il direttore o il caporeparto ne capiscano il senso. A fine mattinata – e te lo garantisco – quando ognuno
ritorna solo con se stesso, le gambe si fanno prima più pesanti e poi s’attorcigliano intorno al desiderio di camminare all’infinito, fermando la nostra ennesima marcia contro o a favore di qualcosa, come se, in mancanza di altri occhi e di altri piedi, non ci fosse più la forza necessaria e nemmeno quella d’emergenza. E’ a quel punto che si viene risucchiati, dalla nostalgia di quel tempo da incendiari o dalla consapevolezza di aver perso il proprio ruolo, di non sentirsi più all’altezza, di non servire quasi a niente, se non a riempire qualche vuoto di memoria a chi non c’era. E lì, per sopravvivere al peso di quel quarto d’umanità che ci è toccato trasportare a spalla, ci si lascia andare ai suoni intensi che ci hanno accompagnato, su e giù per le scale scalcinate delle comuni di campagna, o chiusi nelle stanze affumicate di palazzi senza porte, o con porte senza chiavi, e con chiavi senza indirizzi, perché di promiscua confusione si viveva, così come di musica sparata in aria e nelle orecchie, fino a fondersi con lei – sì, non essa, ma lei, come se fosse una donna – e con tutto ciò che ci ruotava intorno. Nel vuoto austero del dopo cerimonia, nel lutto certosino che non riusciamo a superare, quelle note risuonano da un capo all’altro, dentro la nostra voglia di attaccarcele alla pelle, tra gli accordi veraci degli Stones e la voce roca di Janis Joplin, le scosse di barocco dei vecchi Genesis e la chitarra tirata di Bob Fripp, la fine del mondo di Jim Morrison e gli arzigogoli dorati dei quattro genî di Liverpool, i tempi dispari degli Area e la rabbia distorta di Jimi Hendrix, fino alla commozione, senza vergogna alcuna.
E commosso lo sono stato anche un giorno di tanti anni fa, quando ti ho visto circondato dagli ultimi saluti, e dalle facce livide di chi ti sorreggeva, e dall’ostilità di chi continua a non capire, oggi come allora, il senso di marcia dei destini di rivolta. La rivedo col pensiero quella fila di bandiere rosse listate a lutto, qualcuna sorretta da un bastone lungo – così che da lontano s’intuisse quel dolore tutto nostro – e altre issate su bastoni corti, disordinati e casinisti persino nel momento dell’addio.
Tutt’intorno, a fissare il tuo corpo imprigionato nel legno, migliaia di facce di marzo, o di marziani, come si usava dire allora, con quell’ironia di cui, sotto le due torri, si era maestri. Lentezza e incomprensione, raccoglimento e indifferenza, condivisione e disprezzo… sentimenti contrapposti, come contrapposte erano due città divise in una, costrette a convivere a forza l’una nell’altra, senza un briciolo d’amore, e quello striscione appeso in Piazza Verdi – “Pci: meno ti vediamo meglio stiamo” – a chiarire la frattura tra comunisti immobili e comunisti in movimento. Che fine han fatto le camicie colorate, il teatro nelle strade, il treno dei disoccupati che sfrecciava lungo il muro dell’accademia, trascinando futuri scenografi, scultori e malpittori contro un carrarmato scudocrociato, perché “alle bistecche preferiamo i sacrifici, siamo degli artisti e mangiamo le vernici”? E che fine han fatto coloro i quali quel treno hanno dipinto, lasciando il segno del loro passaggio? Mi dispiace dirlo, e mi costa pure un po’, ma in giro ne vedo davvero pochi a ricordarsi di quei segni, a rivendicare di averli tracciati in cambio di niente, o forse del proprio posto nel mondo. Invece di rispondere sono in tanti ad abbassare gli occhi, mentre attraversano le piazze stringendo il manico di una borsa fuori moda, da avvocato d’altri tempi, da medico condotto di quando la gente viveva ancora in campagna, o da professore di un liceo di provincia. Càpita d’incontrarli, compresi in un ruolo adatto a rappresentare ciò che sono diventati adesso: i più ci fanno un cenno di saluto, rapido e nervoso, a ribadire con quel gesto che proprio non c’è tempo per dirsi neanche due parole, mentre gli altri s’affannano a scendere dai
marciapiedi, a cambiare strada d’improvviso, a guardare l’orologio fingendo di aver dimenticato chissà quale appuntamento, fissato sempre dietro le loro spalle e mai in direzione dei nostri occhi. Sai, anche in questi casi vale il vecchio detto che, se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere, solo che qui da noi, ora, non c’è né da piangere né da ridere, ma da prendere atto in silenzio dei mille tascapane nascosti dietro i paraventi di vite incompiute, delle camicie abbandonate al sole delle religioni, degli anfibi rivenduti agli ambulanti dei mercati, degli eskimo trasformati in giacconi da pesca d’alto bordo, dei maglioni peruviani riposti nei cassetti perché sanno ancora di patchouli, delle sciarpe rosse usate come stracci e dei baschi guevaristi ai quali, per prudenza o persino per vergogna, sono state strappate le stellette. Così si sono spogliati di tutto, della furia e della vecchia identità, degli abiti civili e di quelli militanti, fino a restare nudi di fronte ai richiami del passato. Perché se il presente fugge e il futuro è sempre incerto, è il passato a tirarci giù dal letto quando il mattino sembra non venirci incontro mai. E allora, quando gli anni tornano a visitare la nostra mente un po’ annebbiata, tendiamo a trattenere il meglio e a rimuovere le scorie, l’esatto contrario di ciò che fa chi vuole liquidare l’intera nostra storia, segnata – per loro – da errori, orrori e mostri, e mai da slanci generosi e da scalate al cielo. E poiché, caro mio, io non ho mai creduto ai punti d’equilibrio, né alle benefiche rincorse al centro, oggi non peso tutto sulla stessa bilancia, ma tengo cari i nostri gesti, pur sapendo in quale momento le ossa delle nostre dita, indicando un altro mondo, sono scricchiolate. E oltre a rivedere te rivedo tutti gli altri, quelli che alle scalate al cielo hanno creduto senza infingimenti e senza inseguire le mode, giocandosi anche la vita. E’ questo il discrimine, credimi, la linea di non ritorno davanti alla quale proviamo a vincere la brutta sensazione di attaccare sempre in fuorigioco e a superare la debolezza di questi anni orribili, quelli che non riusciamo a vivere perché ci sembrano impossibili, rinchiusi in spazi così ristretti da non vedere mai l’uscita. Fosse anche solo per questo – perché lo dobbiamo a voi che non ci siete più – andiamo avanti nonostante tutto, lasciando perdere ogni volta la voglia di mollare, di pensare soltanto a noi stessi, alle compagne e ai compagni più cari, ai figli, al lavoro e al nostro piccolo cabotaggio quotidiano.
E dopo tanti anni ti ho visto camminare pensieroso, sul bordo che separa i sogni dalle raffiche di mitra, scolpite ai margini di una memoria troppo corta, come la vita, se qualcuno te la spegne in un istante. Anche noi li abbiamo accarezzati, col pensiero o con le mani, certi mitra diversi dall’arma che ti ha ucciso, magari gli Sten dei nostri padri, zii o parenti partigiani, dell’epopea della montagna e dei suoi ribelli indomiti, inseguita da ragazzi fino a sentirsi come loro, a voler essere come loro. E poi, più vicini a noi, la “guerra di guerriglia” del Che, la sua “fucina del socialismo” – ricordi le copertine verde scuro di quei libri che allora studiavamo ben più di Dante, Manzoni e Leopardi? – il diario boliviano (letto con la morte nel cuore), l’idea marcusiana dell’uomo a una dimensione e quella lainghiana dell’io diviso, e ancora la voglia, ogni tanto, di scendere da un treno sempre in corsa per fermarsi a immaginare le magie del paese di Macondo, o entrare nelle atmosfere ben poco patinate del primo Ken Loach, un regista che, chi tra di noi non ha gettato tutto al vento, oggi ama intensamente. A te – come a Giorgiana, Walter, Pietro, Fausto, Iaio, Valerio, Mario e tanti altri – non è stato concesso nemmeno il tempo di andare oltre l’impegno a tempo pieno, magari per passare qualche ora in più in cinema e teatri, sulle pagine dei romanzi o nelle gallerie d’arte, per scoprire – come abbiamo fatto noi dopo il riflusso, ma non in tanti… – che anche la cultura è un’arma di battaglia, talvolta più efficace di scioperi e picchetti, blocchi stradali e occupazioni, sebbene – te lo garantisco – quei gesti virtuosi non li abbiamo mai dismessi. A tenere in vita la memoria, anche la vostra, ora ci proviamo con i libri, i film, le canzoni e gli spettacoli, provando a raccontare a chi non c’era, a chi era distratto e a chi non dava peso a niente, quei valori che non riusciamo a raccontare in altro modo, se non nel circolo vizioso di chi, privo di qualunque titubanza, sa riconoscere le vostre facce e la tensione di un mattino come tanti, quando si esce di casa senza sapere se vi si farà ritorno. Se tu fossi ancora vivo non userei le parole scontate di un vocabolario vecchio anche per noi, né frasi così banali da mettermi persino in imbarazzo, ma se ogni tanto lo faccio è per chi ha vent’anni adesso e, malgrado le cesure inflitte ai ponti, ha voglia d’ascoltare le storie di quell’agire quotidiano, tra sabotaggi consapevoli e ambienti da ricostruire, con le spine infilate nei fianchi altrui e un po’ anche nei nostri, fino a farci male. Sì, è vero, sarei restio, ma per sincerità te lo devo dire che i giovani di adesso sono proprio diversi da come li potresti immaginare tu.
Loro non cavalcano i sogni, e non vivono all’ombra di un pugno chiuso sperando che quel pugno s’abbatta sullo Stato e lo disgreghi in un baleno, né si scambiano le esistenze perché nessuna di queste possa rimanere mai da sola. Certo, in giro c’è ancora qualcuno che ci assomiglia, ma sono in pochi, e così, quando ne vediamo mille tutti insieme, ci si apre il cuore, pur sapendo che là dove non siamo riusciti noi non riusciranno neanche loro. Semplicemente li seguiamo e non di nascosto, no, ma solo in silenzio, restandocene in disparte a veder sfilare le nuove ribellioni, con l’accortezza di non fare
paragoni e di valorizzare sempre il meglio dei loro gesti, anche quando non li capiamo o vorremmo intervenire per correggerli. In ogni caso è meglio di niente, ci ripetiamo mentre abbandoniamo il campo un po’ storditi, un attimo prima di sentirci fuori posto o di rischiare che qualcuno di loro ci scambi per vecchi sbirri in borghese, che è molto peggio. E quando si chiuderà il sipario e i necrologi sui giornali rimpiangeremo – forse – di non aver dato valore ai cambiamenti in corso, alle piccole conquiste contrapposte agli scenarî vasti, preferendo la coerenza di un lungo cammino verso il nulla al mettere da parte qualcosa tutti i giorni, ma pur sempre in casa d’altri. Chissà come saremo tra i pochi anni che ancora dobbiamo attraversare, e chissà come saremmo stati se le nostre bottiglie, piene di benzina o di carburo, avessero incendiato il mondo lasciandolo ricostruire a noi. Ma tutto questo, anche se per poco, resta ancora iscritto nel futuro; il presente, invece, mi è più chiaro e ti riguarda, con quella semplicità che siamo abituati a chiamare
disarmante.
Così, caro mio, continuo a vederti adesso, mentre sorvoli il tempo assieme agli altri angeli ribelli, riapparsi come te nel nostro vecchio sogno di somigliarvi almeno un po’.(Stefano Tassinari)

Dedicato a Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli (Reggio Emilia 1960) Vincenzo Napoli, Francesco Vella, Giuseppe Malleo, Andrea Gangitano, Rosa La Barbera, Salvatore Novembre (Sicilia 1960) Giovanni Ardizzone (Milano 1962), Bruno Labate , Angelo Campanella (Reggio Calabria 1970), Franco Serantini (Pisa 1972), Fabrizio Ceruso (Roma 1974) Giorgiana Masi (Roma 1977), Carlo Giuliani (Genova 2001)

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“Ultima fermata” . Il fumetto per Renato

Continuano le presentazioni di “Ultima fermata, una storia per Renato” il fumetto di Zero calcare ed Erre push che ricorda la storia di Renato Biagetti ucciso dieci anni fa da due fascisti sulla spiaggia di Focene.

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Le Madres de Plaza de Majo. Resistenti da quarant’anni

“Todos son mis hijos” (Sono tutti miei figli), è un documentario argentino, sottotitolato in italiano grazie all’impegno del Gruppo Italiano di appoggio alle Madres de Plaza de Mayo Kabawil – el otro soy yo, che racconta con immagini e interviste la straordinaria storia di queste donne che si sono opposte alla dittatura e che da 40 anni ogni giovedì scendono ancora in Piazza per reclamare in vita i propri figli scomparsi, contro ogni forma di oppressione e per un futuro degno. Le Madri hanno socializzato la maternità, dichiarandosi madri di tutti i 30.000 desaparecidos, hanno costruito giorno per giorno nuove forme di partecipazione alla vita politica e sociale dell’Argentina, contribuendo alla diffusione della cultura di una memoria “fertile”.
A loro si è ispirata Stefania , madre di Renato Biagetti quando nel 2008 insieme ad un gruppo di donne e madri ha costituito il Comitato Madri per Roma Città Aperta. Le parole “ Ritorno alla vita” sono state gridate dalla madri argentine ieri e oggi dalle madri messicane perché tutte rivogliono i loro figli, non certo nei loro corpi massacrati e occultati, ma vivi nei loro ideali nei loro sogni, in quel futuro per cui hanno lottato contro i regimi fascisti.
Le stesse parole “Ritorno alla vita” sono quelle che guidano da anni le azioni di resistenza all’oblio del Comitato delle Madri per Roma Città Aperta.
Come le madri Argentine, anche le Madri di Roma, attraverso le narrazioni delle singole storie di chi è stato ammazzato da mani fasciste dagli anni 20 ad oggi, vogliono conservare la memoria antifascista del nostro paeseattraverso una memoria collettiva in grado di ricomporree riattivare un tessuto sociale ormai appiattito sulla continua revisione della nostra storia e dell’antifascismo, fondamento della nostra costituzione.
Le Madri argentine furono le prime a rompere il muro del silenzio sfidando lo Stato terrorista. E ancora oggi da Nonne sono impegnate a ridare vita ai loro figli lottando per la verità e la dignità dei loro nipoti. Una resistenza lunga quarant’anni, senza strumenti organizzativi e teorici, ma solo con un’ attività quotidiana e tenace.
La capacità delle donne argentine, attraverso la pratica del ricordo, di resistere all’oblio dei governi, ha rappresentato, e ancora rappresenta un potente riferimento per ogni resistenza civile nel mondo, offrendo soprattutto una forma vincente di trasmissione delle forme di lotta alle future generazioni .
Ancora oggi, le Madri di Plaza de Mayo continuano a costruire nuove forme di identità collettiva, di memoria fertile e di lotta a sistemi economico-politici di oppressione e di negazione delle libertà e dei diritti umani.
Quest’anno sarà una Carovana speciale quella che tornerà ad aprile a Buenos Aires per accompagnare le Madres de Plaza de Mayo nelle celebrazioni dell’anniversario della loro lotta, perché l’Associazione delle Madres compie 40 anni. 40 anni di lotta, di amore, di socializzazione della maternità, di manifestazioni di piazza, di costruzione di futuro.
Queste Madri, che hanno avuto il coraggio di collettivizzare il lutto e socializzare la maternità, ci insegnano ancora oggi che bisogna impegnarsi in prima persona, con il proprio corpo, nella vita politica della propria comunità e del proprio paese.
Le Madri di Roma quest’anno saranno con le madri argentine, perché come figlie vogliamo raccogliere il testimone dalle loro mani, perché pensiamo che la solidarietà è l’unica arma che abbiamo per difendere un grande esperimento di lotta che dura da 40 anni. Saremo con le nostre Madri nella settimana dal 24 al 30 aprile, periodo in cui saranno concentrate le attività che svolgeremo al fianco della Associazione Madres de Plaza de Mayo, fino alla grande festa di Piazza di domenica 30.
Unisciti alla Carovana Kabawil – el otro soy yo! Per avere maggiori informazioni scrivi su kabawil.associazione@gmail.com oppure contattai sui social network; se vuoi, contattaci telefonicamente al numero 338 1195358.
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