Agli angeli ribelli

In ricordo di Francesco Lorusso
ucciso da un carabiniere a Bologna l’11 marzo 1977

Ti ho visto scivolare verso il fondo di un’epoca più ripida di altre, con gli occhi rivolti al resto di una vita rimasta in bilico sugli anni, quelli appena sfiorati e quelli intuiti di lontano. Chissà, forse non ci saresti mai finito su quel fondo, se solo un attimo prima di scendere le scale avessi avuto il dubbio di non poterle risalire, né quel giorno di marzo né mai più, eppure le voci dei compagni e i suoni spenti degli spari sono stati un richiamo più forte di ogni legame istintivo con la vita, per quanto fosse ancor più forte delle parole adatte al sacrificio, tuo e di tutti quelli che hanno anteposto il credere in qualcosa al non credere in niente. E noi, che ci siamo salvati dal finire insanguinati e senza fiato, noi,che abbiamo schivato i troppi anni di galera e le fughe solitarie da un Paese all’altro, noi, combattenti di strada congedati dalla Storia, in fila per dieci coi bastoni tra le dita e la “Hazet 36” nascosta da maglioni sempre più larghi, noi, dicevo, adesso vorremmo scampare anche a ciò che ci perseguita in silenzio, al ricordo del tuo viso un po’ strappato e all’impotenza di non avere più la forza per….
E mi sembra di sentirla la domanda, su quale forza possa contare ancora chi la forza l’ha dispersa nel vivere dispersi, rinchiusi a due alla volta nelle stanze dell’attesa, di uno scontro a fuoco oggi e di una rivoluzione post-domani, fino a quando la porta si apriva all’improvviso e al posto della rossa primavera entrava l’aria cupa e violenta delle teste di cuoio. E tutti noi rimasti fuori, a guardare di lontano quella guerra di nervi più scoperti di altri, ma non sapendo calcolare le distanze tra un bene presunto e un male altrettanto presunto, perché le nostre ragioni erano anche le loro e loro, in fondo, non erano altro che noi cento metri più avanti, noi trasformarti nell’avanguardia di nessuno, noi devastati dagli stessi lutti – eppure disarmati di fronte alla protervia dello Stato – e infine noi all’ennesima potenza, convinti che bastasse qualche geometria a rendere più solida la nuova casa della Storia. Chissà, anche la tua mente – come la nostra, d’altronde – sarà stata martellata per giorni e giorni da quella sequenza di fotogrammi sparsi, stampati su un giornale d’altri tempi, con quel gippone allo stato brado che rincorre i marciapiedi, e poi i compagni uno per uno, e il corpo di Giannino sbalzato sulla strada, e il suo cervello schizzato a dieci metri dalla sua figura inanimata, e il cuore rosso di Milano mangiato dai nemici di ogni cambiamento e sputato addosso alla nostra pazienza, col chiaro intento di farcela svanire. Ed è svanita a tanti la pazienza, in fondo a un mese di agguati e rappresaglie – la campagna elettorale del ’75 -, una dozzina i morti dalla nostra parte, persino il giorno della festa, e dalla parte loro neanche un graffio, con tutti noi a masticare amaro, a discutere per ore di come farla pagare a quei bastardi, se oggi, domani o un giorno che verrà, se a mani nude e solo un casco in testa o con qualcosa in tasca che pareggiasse i conti. Alla fine ognuno ha scelto per se stesso, lasciando agli altri il ruolo dei conigli o delle lepri, di chi ha paura e di chi corre troppo in fretta, ma segnati entrambi dallo stesso destino. Ed è un destino in bianco e nero, forse più nero che bianco, ma sempre migliore del tuo, che da quegli anni ti aspettavi un po’ di luce e hai avuto, invece, il buio di una notte senza fine. Dentro quella notte, nascosti all’ombra di quel famoso ultimo sole, ci stiamo un po’ anche noi, ma non tutti per la verità, perché nel tempo i colori possono sbiadire, e le fedi assolute vacillare, e il richiamo di troppe foreste far perdere l’orientamento anche ai veterani esperti, così che in tanti hanno lasciato un pezzo della propria vita per abbracciarne un’altra, comoda e serena come quella dei nemici di una volta. Tu non l’avresti mai fatto, ne sono certo, e adesso il tuo esempio pesa sui percorsi di chi crede che il tempo possa cancellare anche le tracce di un vecchio proclama, in base al quale “per i compagni uccisi non basta il lutto” – te lo ricordi? Quante volte l’avrai scandito anche tu… – perché alla fine, signori dello Stato, “pagherete caro, pagherete tutto!”, e invece loro non hanno pagato un bel niente e adesso, magari a doppia firma con qualcuno dei “nostri”, scrivono articoli di sdegno e di allarme ad ogni vetrina rotta, ad ogni palloncino pieno di vernice catapultato sulle visiere dei caschi blu, ad ogni gesto dissacrante compiuto da qualche nuovo ribelle. E giù inchiostro velenoso sugli anni Settanta che stanno per tornare, sui giorni bui che nessuno vorrebbe rivedere e sul piombo sparato da una parte sola – sempre la stessa, la nostra – come se nei caricatori delle armi loro ci avessero infilato i cartuccini rossi e gialli della Upim, al posto di quei proiettili color ottone con cui hanno interrotto anche la tua corsa. Dov’è finita la tante volte gridata “giustizia del proletariato”, che faceva rima con il “sarai vendicato”, riferito a questo a quell’altro militante assassinato? E dove siamo finiti noi, che ad ogni appello a far qualcosa ci schieravamo in testa al bisogno di rilanciare le utopie, con i cordoni compatti a separare i mondi contrapposti, quei cordoni disegnati con la riga e con la squadra, così da spaventare i celerini con una sola mossa, le chiavi inglesi alzate verso il cielo e il grido, scandito all’unisono, “pi-esse esse-esse”? Al nostro passaggio si aprivano le acque, e chi aveva un motivo per temerci tirava giù, in fretta e furia, le serrande dei negozi, e abbassava lo sguardo per non far vedere la paura, e affrettava il passo covando un odio da delegare ai poliziotti. Più tardi s’andava pure in osteria, a ridere delle gambe levate di commercianti incravattati e a brindare alla guerriglia di questo o di quel Paese lontano, lanciandosi – da un tavolo all’altro, da un gruppo all’altro – slogan e canti ironici, così da rafforzare il senso dell’appartenenza, ma col sorriso, un po’ stirato, sulle labbra (“Noi siamo quelli di Lc, Lotta continua sì, facciamo la rivoluzione il martedì, uaah uaah… “ subito contrastato dal gesto mimato di un finto pallone da basket che rimbalzava tra terra e mano al suono di “Pdup, pup, pop, pap, nap!”, o dal sarcasmo con cui, sull’aria di una vecchia sigla di “Canzonissima”, si demoliva il militarismo dei compagni di Potop cantando: “Sarà capitato anche a voi, di fare la lotta di classe, gridare potere alle masse, potere potere, potere operaio, bum bum bum bum bum, bum bum bum bum!”). E dopo l’osteria – e quel bere sempre un po’ di più di quanto fosse necessario, ammesso e non concesso che abbia senso fissare dei limiti quando si parla di noi dopo l’osteria, dicevo, dopo quel rito capace di scaricare le tensioni e, per una sera, di farci recuperare la nostra adolescenza, c’era il problema di chi portava a casa chi, di quell’ultimo costretto ad aprire il portone da solo, magari in un quartiere sbagliato e di un altro colore. E allora – sarà successo anche a te, chissà? – si saliva sulle macchine a quattro per volta (che si trattasse della piccola Cinquecento o della fluttuante Due Cavalli, della mitica R4 o della più rapida Centoventisei) per poi perlustrare le strade strette intorno alle nostre abitazioni, in modo tale da intercettare le auto civetta della squadra politica, o quelle più lussuose dei neri della zona. Alla fine, ridotti i rischi al semplice imprevisto, cominciava il tour del ritorno a casa, fino alla quotidiana paranoia del mattino dopo, quando si usciva solo se dall’alto di una finestra la via sembrava sgombra e se, prima di chiudersi il cancello alle spalle, lo sguardo aveva indagato per benino a destra come a sinistra. Lo so, siamo costretti al ricordo e non ci piace, perché il vivere di oggi non è proprio il vivere che ci si aspettava, e so anche che siam finiti così fuori sintonia rispetto al mondo da non aver più voglia di cercare nemmeno le stazioni, come ad aver perso le frequenze una volta per tutte. E’ vero, non dovrei dirlo a te, ché magari attendi il giorno giusto nascosto in un altro sentimento, ma un po’ ci si deprime a confrontare le idee col nulla, la rabbia con la rassegnazione, lo spirito della rivolta con quello della resa e i grandi temi con il chiacchiericcio. In più – lo sai tu e lo sanno tutti quelli come te – certe promesse fatte a caldo bisognerebbe mantenerle, pena il sentirsi traditori per il resto della vita, e bastardi a mille, e anche un po’ cialtroni, semmai qualcuno se ne possa ancora vergognare. Traditori… è una parola che solo a pronunciarla mi sembra troppo vecchia (non avevamo detto, nel corso di questi anni, che tradire se stessi è pur sempre un segno d’apertura? Sì, d’accordo, ma tradire gli altri che cos’è?), eppure sento che la debbo usare, scarnificata da tutta la pelle malata del Novecento, ripulita dall’uso manicheo che fu di tanti, alleggerita da un pregresso che tuttora ce la rende odiosa, sì, certo, ma la debbo usare, perché non ce ne sono altre in grado di spiegare quel comportarsi a fasi alterne, oggi tutti d’un pezzo e domani sgretolati dalla testa ai piedi. Solo che tradire chi, come reazione, non può neppure sputarti in faccia è molto peggio del compiere qualunque altro tradimento, e se questo termine continua a infastidirmi (è chiaro, penso all’uso che ne hanno fatto per decenni gli stalinisti di ogni ordine e grado…) ancor più m’infastidisce riascoltare la vecchia nenia sul fatto che allora avevamo vent’anni e adesso cinquanta e anche di più, e quindi, secondo la stessa litania, non c’è nulla di male a dimenticare ciò che si è urlato più di trent’anni prima, magari col sangue agli occhi e un subbuglio in fondo al cuore. Li ho sentiti – cosa credi? – tagliare corto grazie al cinismo di certe frasi, del tipo “c’è andata bene, alcuni sono morti e altri no, e allora godiamoci senza tante storie il fatto di essere ancora qui, vivi, e facciamola finita con le celebrazioni a tempo scaduto e con i sogni che non si realizzeranno mai!”. Tu non c’eri – anche se c’eri, eccome, assieme a noi – ma loro sì, in quella via Rizzoli stracolma di facce messe al bando dalla “sinistra” dei gasisti e dei democristi, di qua i tuoi compagni, i “soliti provocatori pagati dai padroni” – compresi i tanti che non ti avevano mai visto – e di là, ad occupare la piazza fin dal mattino, tutto l’arco costituzionale, un arco senza più frecce e senza più colori, con Zangherì/Zangherà (ma stavolta non “ride tutta la città”, eh no!) assieme alle divise e ai tanti “uomini delle istituzioni”, sicuri di se stessi fino al masochismo. E se adesso riguardo le foto di quella marea umana stretta tra le torri e Piazza Re Enzo, se con la lente cerco d’ingrandire i volti, be’, ne riconosco molti di coloro i quali, da tempo, hanno smesso d’inseguire qualunque cosa fosse in
movimento. Sono diventati adulti, caro mio, o almeno così dicono ogni volta che qualcuno chiede loro di tuffarsi nel passato, ma solo per un istante, perché hanno perso l’abitudine a restarsene in apnea mentre il mondo, sotto i loro occhi, s’inabissa. E quando riemergono fanno no con la testa, come a dire che là sotto, dove il passato si confonde con ciò che s’intende ricordare, non c’è niente d’importante da recuperare, e se anche qualcosa ci fosse ormai sarebbe così appesantita dalle incrostazioni da impedire a chiunque di riportarla in superficie, con buona pace di chi ama dissociarsi da se stesso ad ogni cambio
di stagione.
Più avanti, dopo quel lungo trambusto d’emozioni, ti ho visto sul fronte di mille manifesti, per più di trenta primavere. Tu sempre te stesso, col viso tirato di chi fa parte di qualcosa, e noi sempre di meno – senza un granché di cui sentirci parte – a ripetere il tuo nome a bassa voce e ad osservare con fastidio certi fiori che giungono in ritardo, a posarsi sui rimorsi, o, forse, ad abbellire le coscienze. Dove siano finiti i molti assenti credo tu l’abbia già capito, senza bisogno che io insista su quanto mi deprima il solo farci i conti. Di cosa siamo noi adesso, noi pochi a stare qui a tanti anni di distanza, davvero non saprei che dirti, se non fermandomi a pensare più di quanto il tempo mi permetta. Veniamo qui in tuo nome, sotto la lapide che ti ricorda, chi ti ha conosciuto e chi no, chi ha condiviso le giornate con te e chi, semplicemente, ti ha vissuto come un simbolo di ciò che era giusto fare e non siamo stati in grado di portare in fondo. Si arriva alla spicciolata, verso le nove e mezza dell’undici marzo di ogni anno, in quella strada stretta e porticata, l’ultima ad essersi fissata nei tuoi occhi. No, stai tranquillo, non c’è aria di circostanza – non da parte nostra, almeno – e si riesce persino a sorridere dei fianchi che s’allargano e dei capelli che svaniscono o s’imbiancano, e di quella ruga in più dell’anno precedente, spuntata all’improvviso a rammentarci che di tempo, da quel giorno, ne è trascorso molto più di quanto, a te, abbiano concesso di passarne in vita. Poi ci sono i baci e gli abbracci, le domande su quella compagna malata e su quel compagno che se n’è andato troppo presto, e pensare che l’anno scorso era qui con noi, e i figli vanno ancora a scuola, sì, li aveva avuti tardi, e adesso a loro chi ci pensa, perché la madre, insomma, si sa che è un po’ depressa, be’, mi raccomando, se c’è bisogno di tirar fuori un po’ di soldi io ci sono, fatemi sapere… . Un quarto d’ora dopo, quando ad occhio e croce sembriamo un centinaio, a taccuini aperti e a telecamere schierate arriva il momento dei discorsi, che, chissà perché, non spettano mai ai tuoi compagni, bensì agli “esponenti delle istituzioni”, a persone che in quei giorni non stringevano le nostre mani, anzi, ti dirò che forse qualcuna di loro se ne stava a difendere il sacrario dei caduti partigiani, pensa te che assurdità, a proteggerlo da noi, che i partigiani li amavamo sopra tutto e sopra tutti, malgrado la loro distanza dalla nostra idea di praticare una nuova resistenza. E così, quando
comincia il rito delle frasi fatte, da dietro le colonne cominciamo a mugugnare, ma sottovoce, tanto per fare, perché sappiamo bene che, in fondo in fondo, la loro presenza è una nostrapiccola vittoria, che il loro essere qui è anche un modo di scusarsi per averci chiamato “untorelli”, che la città è ormai pacificata e… eppure si fa fatica a mandar giù quel rospo, e poiché bisogna farlo, quel borbottare all’aria aperta ci aiuta, ogni anno, nello sforzo. Ecco cosa siamo, caro mio, e non credere si possa parlare a nome e per conto di questi o di altri cento, perché se andiamo a scavare troviamo tante sfumature, che una volta emerse diventano di pietra, piccole differenze destinate a costruire muri che non vorremmo più vedere, e invece ci tocca. Poi ce ne andiamo alla spicciolata: qualcuno, con l’ultima coroncina nelle mani, diretto al giardino che finalmente porta il tuo nome (sì, è un posto sfigato, non ci passa mai nessuno, ma è meglio di niente…), tutti gli altri sulla strada di casa o del luogo di lavoro, perché sta per scadere il permesso di due ore, quello richiesto ogni anno nello stesso giorno senza che il padrone, il direttore o il caporeparto ne capiscano il senso. A fine mattinata – e te lo garantisco – quando ognuno
ritorna solo con se stesso, le gambe si fanno prima più pesanti e poi s’attorcigliano intorno al desiderio di camminare all’infinito, fermando la nostra ennesima marcia contro o a favore di qualcosa, come se, in mancanza di altri occhi e di altri piedi, non ci fosse più la forza necessaria e nemmeno quella d’emergenza. E’ a quel punto che si viene risucchiati, dalla nostalgia di quel tempo da incendiari o dalla consapevolezza di aver perso il proprio ruolo, di non sentirsi più all’altezza, di non servire quasi a niente, se non a riempire qualche vuoto di memoria a chi non c’era. E lì, per sopravvivere al peso di quel quarto d’umanità che ci è toccato trasportare a spalla, ci si lascia andare ai suoni intensi che ci hanno accompagnato, su e giù per le scale scalcinate delle comuni di campagna, o chiusi nelle stanze affumicate di palazzi senza porte, o con porte senza chiavi, e con chiavi senza indirizzi, perché di promiscua confusione si viveva, così come di musica sparata in aria e nelle orecchie, fino a fondersi con lei – sì, non essa, ma lei, come se fosse una donna – e con tutto ciò che ci ruotava intorno. Nel vuoto austero del dopo cerimonia, nel lutto certosino che non riusciamo a superare, quelle note risuonano da un capo all’altro, dentro la nostra voglia di attaccarcele alla pelle, tra gli accordi veraci degli Stones e la voce roca di Janis Joplin, le scosse di barocco dei vecchi Genesis e la chitarra tirata di Bob Fripp, la fine del mondo di Jim Morrison e gli arzigogoli dorati dei quattro genî di Liverpool, i tempi dispari degli Area e la rabbia distorta di Jimi Hendrix, fino alla commozione, senza vergogna alcuna.
E commosso lo sono stato anche un giorno di tanti anni fa, quando ti ho visto circondato dagli ultimi saluti, e dalle facce livide di chi ti sorreggeva, e dall’ostilità di chi continua a non capire, oggi come allora, il senso di marcia dei destini di rivolta. La rivedo col pensiero quella fila di bandiere rosse listate a lutto, qualcuna sorretta da un bastone lungo – così che da lontano s’intuisse quel dolore tutto nostro – e altre issate su bastoni corti, disordinati e casinisti persino nel momento dell’addio.
Tutt’intorno, a fissare il tuo corpo imprigionato nel legno, migliaia di facce di marzo, o di marziani, come si usava dire allora, con quell’ironia di cui, sotto le due torri, si era maestri. Lentezza e incomprensione, raccoglimento e indifferenza, condivisione e disprezzo… sentimenti contrapposti, come contrapposte erano due città divise in una, costrette a convivere a forza l’una nell’altra, senza un briciolo d’amore, e quello striscione appeso in Piazza Verdi – “Pci: meno ti vediamo meglio stiamo” – a chiarire la frattura tra comunisti immobili e comunisti in movimento. Che fine han fatto le camicie colorate, il teatro nelle strade, il treno dei disoccupati che sfrecciava lungo il muro dell’accademia, trascinando futuri scenografi, scultori e malpittori contro un carrarmato scudocrociato, perché “alle bistecche preferiamo i sacrifici, siamo degli artisti e mangiamo le vernici”? E che fine han fatto coloro i quali quel treno hanno dipinto, lasciando il segno del loro passaggio? Mi dispiace dirlo, e mi costa pure un po’, ma in giro ne vedo davvero pochi a ricordarsi di quei segni, a rivendicare di averli tracciati in cambio di niente, o forse del proprio posto nel mondo. Invece di rispondere sono in tanti ad abbassare gli occhi, mentre attraversano le piazze stringendo il manico di una borsa fuori moda, da avvocato d’altri tempi, da medico condotto di quando la gente viveva ancora in campagna, o da professore di un liceo di provincia. Càpita d’incontrarli, compresi in un ruolo adatto a rappresentare ciò che sono diventati adesso: i più ci fanno un cenno di saluto, rapido e nervoso, a ribadire con quel gesto che proprio non c’è tempo per dirsi neanche due parole, mentre gli altri s’affannano a scendere dai
marciapiedi, a cambiare strada d’improvviso, a guardare l’orologio fingendo di aver dimenticato chissà quale appuntamento, fissato sempre dietro le loro spalle e mai in direzione dei nostri occhi. Sai, anche in questi casi vale il vecchio detto che, se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere, solo che qui da noi, ora, non c’è né da piangere né da ridere, ma da prendere atto in silenzio dei mille tascapane nascosti dietro i paraventi di vite incompiute, delle camicie abbandonate al sole delle religioni, degli anfibi rivenduti agli ambulanti dei mercati, degli eskimo trasformati in giacconi da pesca d’alto bordo, dei maglioni peruviani riposti nei cassetti perché sanno ancora di patchouli, delle sciarpe rosse usate come stracci e dei baschi guevaristi ai quali, per prudenza o persino per vergogna, sono state strappate le stellette. Così si sono spogliati di tutto, della furia e della vecchia identità, degli abiti civili e di quelli militanti, fino a restare nudi di fronte ai richiami del passato. Perché se il presente fugge e il futuro è sempre incerto, è il passato a tirarci giù dal letto quando il mattino sembra non venirci incontro mai. E allora, quando gli anni tornano a visitare la nostra mente un po’ annebbiata, tendiamo a trattenere il meglio e a rimuovere le scorie, l’esatto contrario di ciò che fa chi vuole liquidare l’intera nostra storia, segnata – per loro – da errori, orrori e mostri, e mai da slanci generosi e da scalate al cielo. E poiché, caro mio, io non ho mai creduto ai punti d’equilibrio, né alle benefiche rincorse al centro, oggi non peso tutto sulla stessa bilancia, ma tengo cari i nostri gesti, pur sapendo in quale momento le ossa delle nostre dita, indicando un altro mondo, sono scricchiolate. E oltre a rivedere te rivedo tutti gli altri, quelli che alle scalate al cielo hanno creduto senza infingimenti e senza inseguire le mode, giocandosi anche la vita. E’ questo il discrimine, credimi, la linea di non ritorno davanti alla quale proviamo a vincere la brutta sensazione di attaccare sempre in fuorigioco e a superare la debolezza di questi anni orribili, quelli che non riusciamo a vivere perché ci sembrano impossibili, rinchiusi in spazi così ristretti da non vedere mai l’uscita. Fosse anche solo per questo – perché lo dobbiamo a voi che non ci siete più – andiamo avanti nonostante tutto, lasciando perdere ogni volta la voglia di mollare, di pensare soltanto a noi stessi, alle compagne e ai compagni più cari, ai figli, al lavoro e al nostro piccolo cabotaggio quotidiano.
E dopo tanti anni ti ho visto camminare pensieroso, sul bordo che separa i sogni dalle raffiche di mitra, scolpite ai margini di una memoria troppo corta, come la vita, se qualcuno te la spegne in un istante. Anche noi li abbiamo accarezzati, col pensiero o con le mani, certi mitra diversi dall’arma che ti ha ucciso, magari gli Sten dei nostri padri, zii o parenti partigiani, dell’epopea della montagna e dei suoi ribelli indomiti, inseguita da ragazzi fino a sentirsi come loro, a voler essere come loro. E poi, più vicini a noi, la “guerra di guerriglia” del Che, la sua “fucina del socialismo” – ricordi le copertine verde scuro di quei libri che allora studiavamo ben più di Dante, Manzoni e Leopardi? – il diario boliviano (letto con la morte nel cuore), l’idea marcusiana dell’uomo a una dimensione e quella lainghiana dell’io diviso, e ancora la voglia, ogni tanto, di scendere da un treno sempre in corsa per fermarsi a immaginare le magie del paese di Macondo, o entrare nelle atmosfere ben poco patinate del primo Ken Loach, un regista che, chi tra di noi non ha gettato tutto al vento, oggi ama intensamente. A te – come a Giorgiana, Walter, Pietro, Fausto, Iaio, Valerio, Mario e tanti altri – non è stato concesso nemmeno il tempo di andare oltre l’impegno a tempo pieno, magari per passare qualche ora in più in cinema e teatri, sulle pagine dei romanzi o nelle gallerie d’arte, per scoprire – come abbiamo fatto noi dopo il riflusso, ma non in tanti… – che anche la cultura è un’arma di battaglia, talvolta più efficace di scioperi e picchetti, blocchi stradali e occupazioni, sebbene – te lo garantisco – quei gesti virtuosi non li abbiamo mai dismessi. A tenere in vita la memoria, anche la vostra, ora ci proviamo con i libri, i film, le canzoni e gli spettacoli, provando a raccontare a chi non c’era, a chi era distratto e a chi non dava peso a niente, quei valori che non riusciamo a raccontare in altro modo, se non nel circolo vizioso di chi, privo di qualunque titubanza, sa riconoscere le vostre facce e la tensione di un mattino come tanti, quando si esce di casa senza sapere se vi si farà ritorno. Se tu fossi ancora vivo non userei le parole scontate di un vocabolario vecchio anche per noi, né frasi così banali da mettermi persino in imbarazzo, ma se ogni tanto lo faccio è per chi ha vent’anni adesso e, malgrado le cesure inflitte ai ponti, ha voglia d’ascoltare le storie di quell’agire quotidiano, tra sabotaggi consapevoli e ambienti da ricostruire, con le spine infilate nei fianchi altrui e un po’ anche nei nostri, fino a farci male. Sì, è vero, sarei restio, ma per sincerità te lo devo dire che i giovani di adesso sono proprio diversi da come li potresti immaginare tu.
Loro non cavalcano i sogni, e non vivono all’ombra di un pugno chiuso sperando che quel pugno s’abbatta sullo Stato e lo disgreghi in un baleno, né si scambiano le esistenze perché nessuna di queste possa rimanere mai da sola. Certo, in giro c’è ancora qualcuno che ci assomiglia, ma sono in pochi, e così, quando ne vediamo mille tutti insieme, ci si apre il cuore, pur sapendo che là dove non siamo riusciti noi non riusciranno neanche loro. Semplicemente li seguiamo e non di nascosto, no, ma solo in silenzio, restandocene in disparte a veder sfilare le nuove ribellioni, con l’accortezza di non fare
paragoni e di valorizzare sempre il meglio dei loro gesti, anche quando non li capiamo o vorremmo intervenire per correggerli. In ogni caso è meglio di niente, ci ripetiamo mentre abbandoniamo il campo un po’ storditi, un attimo prima di sentirci fuori posto o di rischiare che qualcuno di loro ci scambi per vecchi sbirri in borghese, che è molto peggio. E quando si chiuderà il sipario e i necrologi sui giornali rimpiangeremo – forse – di non aver dato valore ai cambiamenti in corso, alle piccole conquiste contrapposte agli scenarî vasti, preferendo la coerenza di un lungo cammino verso il nulla al mettere da parte qualcosa tutti i giorni, ma pur sempre in casa d’altri. Chissà come saremo tra i pochi anni che ancora dobbiamo attraversare, e chissà come saremmo stati se le nostre bottiglie, piene di benzina o di carburo, avessero incendiato il mondo lasciandolo ricostruire a noi. Ma tutto questo, anche se per poco, resta ancora iscritto nel futuro; il presente, invece, mi è più chiaro e ti riguarda, con quella semplicità che siamo abituati a chiamare
disarmante.
Così, caro mio, continuo a vederti adesso, mentre sorvoli il tempo assieme agli altri angeli ribelli, riapparsi come te nel nostro vecchio sogno di somigliarvi almeno un po’.(Stefano Tassinari)

Dedicato a Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli (Reggio Emilia 1960) Vincenzo Napoli, Francesco Vella, Giuseppe Malleo, Andrea Gangitano, Rosa La Barbera, Salvatore Novembre (Sicilia 1960) Giovanni Ardizzone (Milano 1962), Bruno Labate , Angelo Campanella (Reggio Calabria 1970), Franco Serantini (Pisa 1972), Fabrizio Ceruso (Roma 1974) Giorgiana Masi (Roma 1977), Carlo Giuliani (Genova 2001)

Questa voce è stata pubblicata in Per approfondire. Contrassegna il permalink.