Nei secoli fedele……1- la guerra di Lucia

Caso Uva, un giudice stoppa l’archiviazione
Checchino Antonini

22 luglio 2013

«Buongiorno a tutti – scrive Lucia Uva sul suo profilo facebook – oggi dopo 5 anni ho ripreso ad avere fiducia nella giustizia. finalmente!!!!! devo ringraziare il mio avv. Fabio Anselmo, lui me lo aveva detto: “Lucia ci sono tanti Giudici seri e scrupolosi. Se riusciamo ad andare di fronte ad un uno qualsiasi di loro, il fascicolo della morte di Giuseppe non potrà essere così archiviato così come vorrebbe il PM.ABATE. abbi fiducia nella giustizia”. Oggi finalmente posso dire che è andata così. Il GIP non ha nemmeno aspettato che i miei avvocati depositassero l’opposizione alla richiesta di archiviazione ed ha fissato lui stesso l’udienza per discuterla. Ma ha detto tante cose nel suo provvedimento. leggetelo! grazie».

In realtà siamo noi a dover dire grazie a questa donna che da cinque anni si batte per far luce sulla morte di suo fratello che ha tutti gli ingredienti di un caso di malapolizia e che invece un pm varesino vorrebbe a tutti i costi che sia un caso, e tra i più banali, di malasanità.

«Il decreto del Gip Giuseppe Battarino che non accoglie immediatamente la richiesta di archiviazione suona inequivocabilmente come una smentita radicale e come una critica incondizionata alle conclusioni delle indagini condotte dal pubblico ministero Agostino Abate», scrive Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, nata per gestire un numero verde per fermare il dilagare di casi Uva in tutta Italia.

Il Gip ha scritto così nel suo provvedimento: «La stessa qualificazione giuridica dei fatti, risultante dall’iscrizione delle persone presenti all’interno della caserma dei Carabinieri come indagati per mere lesioni personali semplici, contraddice gli esiti argomentativi della sentenza n. 498/2012 (quella in cui il giudice, assolvendo il medico indicato dal pm come responsabile di omicidio colposo, chiedeva contestualmente che gli atti fossero rinviati alla Procura per indagare sulle ore in cui Uva è stato trattenuto in caserma) ed è […] apodittica, a fronte di un evento – la morte di Giuseppe Uva – da ritenersi allo stato privo di spiegazione giudizialmente accertata; tutto ciò comporta la necessità di ulteriore valutazione e fa ritenere non immediatamente accoglibile la richiesta di archiviazione».

La decisione del Gip conferma quanto detto già da altri due giudici e cioè che non tutto è stato fatto per capire come morì Uva e cosa accadde nelle ore in cui fu tenuto, probabilmente illegalmente, nella caserma e un testimone lo sentì gridare. Il Gip, per evitare ulteriori slittamenti in una fase in cui si è comunque molto vicini alla prescrizione, ha già fissato le date per le udienze. Il decreto apre senz’altro a scenari di contestazione di omicidio o di reati comunque più gravi rispetto alle lesioni volontarie, nonché a valutazioni sulla liceità dell’arresto e sull’ipotesi di sequestro di persona, con reati ipotizzati dalle parti civile fino dal 2010 e presi in considerazione anche da altri giudici del Tribunale di Varese che si sono occupati del caso.

Caso Giuseppe Uva: il ribaltone…
Mario Di Vito

Fonte: Il Manifesto, 11 luglio 2013
11 luglio 2013

Rinvio a giudizio per le persone che hanno denunciato la morte in carcere di Giuseppe Uva, a cominciare dalla sorella, e archiviazione per carabinieri e poliziotti. È la richiesta dei pm di Varese. Secondo i quali l’uomo non fu ammazzato di botte in caserma ma si ferì da solo

Per la morte di Giuseppe Uva carabinieri e poliziotti potrebbero non essere mai processati. Davanti a un giudice, invece, potrebbero finirci sua sorella Lucia, lo scrittore e documentarista Adriano Chiarelli, l’inviato delle Iene Mauro Casciari e il direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi. La richiesta di rinvio a giudizio per i secondi e di archiviazione per i primi è arrivata dal Gip di Varese lo scorso 28 giugno, firmata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini. Per i due investigatori «la prova che non sono stati commessi determinati fatti costituiscono allo stesso tempo elemento costitutivo dei reati di diffamazione contestati». Cioè, visto che non sono stati Paolo Righetti, Stefano Del Bosco, Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano a stuprare e a massacrare di botte in caserma Giuseppe Uva fino a provocarne la morte in ospedale qualche ora dopo, chi ha sostenuto queste tesi è da considerarsi un diffamatore. Da qui la doppia richiesta avanzata dalla procura della cittadina lombarda.
Il fascicolo da cui è stato stralciato questo segmento d’indagine è il numero 5509, lì dentro sono ricostruiti i fatti avvenuti nella notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008, quando Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero vennero fermati da una pattuglia dei carabinieri e portati nella caserma di via Saffi. Erano le 2 e 55. Alle 5 e 41 un’ambulanza con a bordo Giuseppe arriva al pronto soccorso. In mezzo c’è il mistero. L’unico processo che si è celebrato ha scagionato da ogni accusa il dottor Carlo Fraticelli, con il teorema della morte per malasanità portato avanti dal pm Abate che è crollato sotto i colpi di una sentenza decisa in un quarto d’ora, contro una requisitoria che di ore ne durò cinque. Non solo, il giudice Orazio Muscato ordinò anche il ritorno degli atti in procura per capire cosa avvenne tra il fermo dei due e l’arrivo all’ospedale di Uva. Ecco, il risultato è questo: i pm chiedono l’archiviazione per i poliziotti e i carabinieri coinvolti. Con tante scuse. Non solo, nella richiesta di Abate e Arduini ricorrono spesso frasi e toni di sfida nei confronti dello stesso Muscato, in un quasi inedito scontro tra magistratura inquirente e giudicante, tutto su carta bollata: «In sintesi – si legge – il giudice prima ha impedito che si accertasse in aula quanto accaduto, poi ha accettato acriticamente che i periti concludessero con ipotesi basate su un presunto mistero su quanto accaduto in caserma; infine ha ordinato una trasmissione degli atti perché la procura acquisisca le prove». Tutto questo per dire che Giuseppe Uva «fu trattato in modo idoneo e non lesivo (in caserma, ndr); non fu limitato nella sua libertà se non nei termini minimali necessari, quali indurlo a farlo salire in vettura per accompagnarlo in caserma, farlo soggiornare in una stanza (senza alcun vincolo fisico-costrittivo) in attesa che si calmasse e, dopo poco tempo anche sotto il controllo sanitario con l’arrivo di due medici. Non ha subito lesioni fisiche né trattamenti comunque lesivi e/o pericolosi».
Ma allora, i segni delle botte? I lividi? Le escoriazioni? I traumi rilevati dalle perizie? Il sangue sui vestiti? «Giuseppe Uva in più momenti ha tirato calci contro la scrivania e i mobili, ha volutamente picchiato la testa contro una vetrata, ha tirato pugni contro i mobili e minacciato tutti i presenti intimando loro di non avvicinarsi». Non basta: «Le abitudini di vita di Giuseppe Uva purtroppo spiegavano la scarsissima igiene personale e le condizioni degli abiti che indossava. Sono vicende umane, tristi ma ricorrenti, significative per l’indagine solo perché dimostrano che le affermazioni delle parti offese non possono di certo basarsi sulla conoscenza vera di come vivesse il fratello, del suo rapporto con l’alcol, dei suoi comportamenti e del suo stato complessivo di salute».
Lucia Uva, insomma, non vedeva spesso suo fratello, quindi non poteva sapere come vivesse. Così adesso, in un ribaltamento degno dello Ionesco più apocalittico, sul banco degli imputati ci finiranno proprio coloro che più di tutti hanno cercato la giustizia. A risultare lesive dell’onore e della dignità degli uomini in divisa sono state alcune frasi di Lucia durante un servizio delle Iene, agli atti: «Me lo hanno inculato, cazzo» riferendosi a un presunto stupro in caserma ai danni del fratello. Più altre parole contenute nel documentario sul caso, «Nei secoli fedele» di Adriano Chiarelli e Stefano Menghini. La voglia di parlare, da parte loro, è poca. Ma, con il loro avvocato Fabio Anselmo, annunciano battaglia. Alla prossima udienza.

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Le donne di maggio – Terremutate, le donne dell’Aquila

Il Comitato Donne Terre-Mutate nasce a L’Aquila nell’ottobre del 2010 per organizzare un incontro nazionale di donne che si terrà nel capoluogo abruzzese il 7 e 8 maggio 2011 con lo slogan:  BEN VENGANO LE DONNE A MAGGIO.  MANI-FESTIAMO. SIAMO TUTTE AQUILANE. Il nome l’avevamo preso dal numero 81 della rivista Leggendaria, che a sua volta l’aveva preso dall’auto-definizione di Francesco Paolucci, filmaker aquilano (“Sono un terre-mutato”).

Terremutate foto-di-nicoletta-bardi

Terremutate
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Le donne promotrici dell’evento, che dall’aprile 2009 non hanno mai smesso di incontrarsi, ragionare e progettare insieme nuovi luoghi, hanno voluto creare una rete solidale con altre realtà femminili che lavorano dentro le associazioni, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nell’arte. Circa 600 donne , da tutta Italia, hanno partecipato agli incontri e alle iniziative durante le giornate del maggio 2011 (vai alla fotogallery: http://www.laquiladonne.com/fotogallery-2011/).

Da quegli incontri, sono nate 24 “staffette” in altrettante città d’Italia e luoghi di donne, che hanno voluto invitare delegazioni di TerreMutate perché arccontassero e si facessero raccontare cosa accade nelle altre realtà. Le stesse donne hanno sostenuto con donazioni le attività del Comitato. Dopo due anni, il Comitato ha lanciato un nuovo incontro nazionale, il 18 e 19 maggio 2013.

Alla vigilia di questo incontro, TerreMutate è diventato un’Associazione, le cui socie fondatrici, le stesse che hanno promosso il Comitato, hanno lanciato una Carta degli Intenti ed elaborato uno statuto per la futura Casa delle Donne dell’Aquila.

SOPRATTUTTO ABBIAMO UN SOGNO:
COSTRUIRE NELLA NUOVA CITTÀ UN LUOGO DELLE DONNE

Comitato Promotore “Donne terre-mutate per l’incontro nazionale del 7 e 8 maggio 2011”

  • Biblioteca delle donne Melusine L’Aquila
  •  Centro Antiviolenza per le Donne L’Aquila
  • Donne in nero L’Aquila
  • Leggendaria. Libri Letture Linguaggi
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Le donne di maggio – Giorgiana Masi

Giorgiana da www.nuovaresistenza.org

Giorgiana da www.nuovaresistenza.org

MORIRE DI STATO OGGI COME  IERI

Il 12 maggio del 1977 le squadre speciali dell’allora ministro dell’Interno Francesco Kossiga assassinavano Giorgiana Masi, compagna femminista scesa in piazza insieme a tante e tanti altri sfidando il divieto di manifestare, nell’anniversario della vittoria referendaria sul divorzio. Le forze di polizia risposero sparando candelotti lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Picchiati e maltrattati anche fotografi, giornalisti e passanti.

Pochi minuti prima delle 20, durante l’ennesima carica della polizia, due compagne furono raggiunte da proiettili sparati da Ponte Garibaldi, dove erano attestati poliziotti, carabinieri e agenti in borghese. Elena Ascione rimase ferita a una gamba. Giorgiana Masi, 19 anni, studente del liceo Pasteur, venne centrata alla schiena. Morirà durante il trasporto in ospedale.

Cossiga prima elogiò in Parlamento “il grande senso di prudenza e moderazione” delle forze dell’ordine, poi fu costretto a modificare la propria versione dei fatti, ammettendo la presenza delle squadre speciali ma continuò sempre a negare che la polizia avesse sparato, pur se smentito da testimoni, foto e filmati.

L’inchiesta per omicidio si concluse nel 1981 con sentenza di archiviazione “per essere rimasti ignoti i responsabili del reato”.

Cinque anni prima , il 7 maggio 1972, un ragazzo anarchico di 21 anni, Franco serantini, durante una manifestazione antifascista a Pisa,  muore  dopo un pestaggio della polizia nel carcere pisano. Don Bosco

Nonostante formalmente non si siano trovati gli esecutori materiali dell’omicidio di Franco Serantini, a causa dei tanti “non ricordo” da parte degli uomini appartenenti ai vari apparati dello Stato (polizia, carceri, infermieri), il procedimento ha dimostrato inequivocabilmente le responsabilità delle forze dell’ordine che si accanirono contro il giovane anarchico.

Ha scritto Corrado Stajano nel suo “Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Franco Segantini”:

«Lo Stato, stupito dalle reazioni dell’opinione pubblica democratica in difesa di un uomo senza valore, un rifiutato sociale privo di ogni forza di scambio politico, si è obiettivamente confessato colpevole. Lo accusano i suoi comportamenti, i suoi continui e impudenti tentativi di mascherare e di insabbiare le responsabilità e di chiudere un caso che ha assunto un valore di simbolo del rapporto tra cittadino e stato di diritto, fra autoritarismo e libertà».

Ma lo Stato non si è fermato da allora nel reprimere la libertà e il diritto a  manifestare, non si è fermato nel calpestare gli elementari diritti umani dei suoi cittadini.

Anzi negli ultimo decennio, soprattutto dopo la grande manifestazione di Genova del 2001 contro il G8, dove si è consumato uno dei più grandi crimini dello Stato contro i propri cittadini con l’assalto alla scuola Diaz  e le torture della caserma di Bolzaneto, si è assistito a  forme crescenti di repressione e violenza dello Stato contro movimenti e individui, tutti uniti da forme di contrasto sociale, o di semplice resistenza alla violenza , quasi sempre impunita, dei tanti corpi repressivi dello Stato.

Carlo Giuliani, ucciso da un carabiniere a Genova nel 2001

Marcello Lonzi, morto nel carcere di Livorno nel 2003

Federico Aldovrandi, ucciso durante un fermo di polizia  da quattro poliziotti nel 2005

Ricardo Rasman  ucciso per asfissia  nel 2006 nella sua casa da  due pattuglie di polizia

Aldo Bianzino morto nel carcere di perugina nel 2007

Giuseppe Uva  morto a Varese in una Caserma dei  Carabinieri nel 2008

Manuel Eliantonio  morto nel carcere di Marassi a Genova nel 2008

Francesco Mastrogiovanni   lasciato morire in un letto di contenzione nell’ Ospedale psichiatrico di Vallo della Lucania nel 2009

Stefano Cucchi morto a Roma dopo un arresto per detenzione di droga nel  2009

Michele Ferulli morto a Milano nel 2011 dopo un pestaggio della polizia in strada.

Cristian De Cupis 2011 morto a Roma dopo un fermo della polizia ferroviaria per resistenza e oltraggio,

Accade nel nostro Paese che  lo Stato possa  sottrarre un figlio e  restituirlo morto: negando ogni possibilità di avvicinarlo, di esercitare il diritto di ogni madre di constatare la salute e le condizioni del proprio figlio, anche di chi  si trova in carcere.

Accade nel nostro Paese che lo Stato “sequestri” le persone , attraverso  i fermi, sospendendo ogni diritto umano e costituzionale di comunicazione con i legali e le famiglie.

Accade nel nostro Paese che nelle carceri italiane siano morti più di 1.500 detenuti:150 morti l’anno in 10 anni, un morto ogni due giorni di cui più di un 1/3 per suicidio. Di questi, un numero elevato di persone muoiano prima di essere giudicate.

Accade nel nostro Paese che nelle carceri i giovani tra i 18 e i 24 anni si suicidino: 50 volte di più che tra i non reclusi.

Accade nel nostro Paese che le detenzioni e le misure alternative siano cresciute in modo esponenziale: negli ultimi 20  anni  i reclusi sono quasi 70.000 e 35.000 le misure alternative.

Accade nel nostro Paese  si creino leggi che riempiono le carceri di colpevoli di reati minori. che la recidività per questi reati minori accresca in modo esponenziale la pena.

Accade che i centri di prima accoglienza si trasformino in Centri di Identificazione ed Espulsione e con una permanenza fino a 18 mesi, luoghi non luoghi fuori da ogni normativa e controllo.

Accade nel nostro paese che l’immigrazione, le mobilitazioni sociali , la diversità e i comportamenti non conformi a regole, non condivise, stiano riempiendo le carceri a causa della continua emanazione di leggi liberticide.

l numero delle persone arrestate, rinchiuse e trattate, perché socialmente non disciplinate, in lotta per i beni comuni sale di giorno in giorno. E le condanne che subiscono sono gravissime

Noi donne e madri in tutto questo denunciamo una pericolosa sottrazione delle libertà e dei diritti umani e  lanciamo un appello che vuole dar voce ad ogni madre che voglia rivendicare la dignità e i diritti violati dei propri figli, insieme alle madri che in ogni parte del mondo hanno chiesto e continuano a chiedere giustizia e verità per i loro figli.

Vogliamo continuare chiedere giustizia e verità per le morti e i suicidi in carcere. Denunciare l’abuso dei fermi e degli arresti e delle misure cautelari in occasione di  mobilitazioni sociali e di dissenso e di disagio sociale, l’abuso di utilizzo dei reati di resistenza e oltraggio. Abrogare le  leggi liberticide sulla droga e sull’immigrazione che aumentano a dismisura il numero delle persone nelle carceri: (Fini Giovanardi, Cirielli, Napoletano Turco, Fini Bossi sull’uso delle droghe sull’immigrazione, sull’ordine pubblico).

Perché i sogni di Giorgiana e di Franco tornino a vivere in queste strade e in questa città.

Madri per Roma Città Aperta

 

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Resistenti – Peppino Impastato e Felicia Bartolotta

Il 9 maggio 1978 muore Peppino Impastato, qualche giorno prima delle elezioni comunali di Cinisi dove si era candidato nelle liste di Democrazia Proletaria e qualche giorno dopo l’esposizione di una documentata mostra fotografica sulla devastazione del territorio operata da speculatori e gruppi mafiosi: il suo corpo è dilaniato da una carica di tritolo posta sui binari della linea ferrata Palermo-Trapani.
Da una sua nota biografica

da www.peppinoimpastato.com

da www.peppinoimpastato.com

“Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una civiltà tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. E’ riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai al PSIUP con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuole rompere tutto e cerca protezione. Creammo un forte nucleo giovanile, fondammo un giornale e un movimento d’opinione, finimmo in tribunale e su tutti i giornali. Lasciai il PSIUP due anni dopo, quando d’autorità fu sciolta la Federazione Giovanile. Erano i tempi della rivoluzione culturale e del “Che”. Il ’68 mi prese quasi alla sprovvista. Partecipai disordinatamente alle lotte studentesche e alle prime occupazioni. Poi l’adesione, ancora na volta su un piano più emozionale che politico, alle tesi di uno dei tanti gruppi marxisti-leninisti, la Lega. Le lotte di Punta Raisi e lo straordinario movimento di massa che si è riusciti a costruirvi attorno. E’ stato anche un periodo, delle dispute sul partito e sulla concezione e costruzione del partito: un momento di straordinario e affascinante processo di approfondimento teorico. Alla fine di quell’anno l’adesione ad uno dei due tronconi, quello maggioritario, del PCD’I ml.- il bisogno di un minimo di struttura organizzativa alle spalle (bisogno di protezione ), è stato molto forte. Passavo, con continuità ininterrotta da fasi di cupa disperazione a momenti di autentica esaltazione e capacità creativa: la costruzione di un vastissimo movimento d’opinione a livello giovanile, il proliferare delle sedi di partito nella zona, le prime esperienze di lotta di quartiere, stavano lì a dimostrarlo. Ma io mi allontanavo sempre più dalla realtà, diventava sempre più difficile stabilire un rapporto lineare col mondo esterno, mi racchiudevo sempre più in me stesso. Mi caratterizzava sempre più una grande paura di tutto e di tutti e al tempo stesso una voglia quasi incontrollabile di aprirmi e costruire. Da un mese all’altro, da una settimana all’altra, diventava sempre più difficile riconoscermi. Per giorni e giorni non parlavo con nessuno, poi ritornavo a gioire, a riproporre: vivevo in uno stato di incontrollabile schizofrenia. E mi beccai i primi ammonimenti e la prima sospensione dal partito. Fui anche trasferito in un. altro posto a svolgere attività, ma non riuscii a resistere per più di una settimana: mi fu anche proposto di trasferirmi a Palermo, al Cantiere Navale: un pò di vicinanza con la Classe mi avrebbe giovato. Avevano ragione, ma rifiutai.
Mi trascinai in seguito, per qualche mese, in preda all’alcool, sino alla primavera del ’72 ( assassinio di Feltrinelli e campagna per le elezioni politiche anticipate ). Aderii, con l’entusiasmo che mi ha sempre caratterizzato, alla proposta del gruppo del “Manifesto”: sentivo il bisogno di garanzie istituzionali: mi beccai soltanto la cocente delusione della sconfitta elettorale. Furono mesi di delusione e disimpegno: mi trovavo, di fatto, fuori dalla politica. Autunno ’72. Inizia la sua attività il Circolo Ottobre a Palermo, vi aderisco e do il mio contributo.Mi avvicino a “Lotta Continua” e al suo processo di revisione critica delle precedenti posizioni spontaneistiche, particolarmente in rapporto ai consigli: una problematico che mi aveva particolarmente affascinato nelle tesi del “Manifesto” Conosco Mauro Rostagno : è un episodio centrale nella mia vita degli ultimi anni. Aderisco a “Lotta Continua” nell’estate del ’73, partecipo a quasi tutte le riunioni di scuola-quadri dell’organizzazione, stringo sempre più o rapporti con Rostagno: rappresenta per me un compagno che mi dà garanzie e sicurezza: comincio ad aprirmi alle sue posizioni libertarie, mi avvicino alla problematica renudista. Si riparte con l’iniziativa politica a Cinisi, si apre una sede e si dà luogo a quella meravigliosa, anche se molto parziale, esperienza di organizzazione degli edili. L’inverno è freddo, la mia disperazione è tiepida. Parto militare: è quel periodo, peraltro molto breve, il termometro del mio stato emozionale: vivo 110 giorni di continuo stato di angoscia e in preda alla più incredibile mania di persecuzione”

da

 http://www.peppinoimpastato.com/biografia.htm

Peppino ti ricordi quando

mi hai aiutato a fare
la trasmissione su Fausto e Iaio
tu sapevi usare sempre le parole giuste
per ricordare che il potere
ha già fatto molti morti.
Hai pure voluto ricordare l’anniversario
di Pinelli, di Sacco e Vanzetti
hai sempre pensato a Francesco
a Walter, a Giorgiana, a Mauro
e a tutti gli altri compagni
morti di Stato.
Ora ti aspetto per pensare
anche a te
perchè non è vero che sei vivo
ma siamo noi che moriamo
sempre più dopo le vostre morti.

Guido (maggio 1978)

 

Il 7 dicembre 2004 è morta Felicia Bartolotta, madre di Peppino.

Le idee che restano di Felicia Bartolotta, la mamma di Peppino Impastato, la prima donna in Italia a costituirsi Parte Civile, insieme al figlio Giovanni, in un processo di mafia. Giovanni ci racconta la forza di questa donna straordinaria, che non si è mai arresa, neanche quando tutti intorno a lei, la invitavano alla rassegnazione. Una mamma coraggio che ha sposato gli ideali del figlio e che con incredibile forza ha lottato per trasmetterli. “La mafia non si combatte con la pistola ma con la cultura”.

da www.peppinoimpastato.com -

da www.peppinoimpastato.com

 

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Nuova resistenza – Le madri del No MUOS

mammenomuos-400x300Alle madri del No MUOS

Il Comitato madri per Roma Città Aperta, nato per rivendicare il diritto alla vita e ai sogni di Renato Biagetti, un ragazzo di 26 anni, ucciso a Roma da lame fasciste all’uscita di un concerto, si sta impegnando sul tema dei diritti negati nel nostro paese.
Siamo in rete con altri gruppi e associazioni, in particolare abbiamo stabilito rapporti di solidarietà e di comunanza con le donne della Val Susa, nelle lotte e nella loro resistenza ai progetti e ai cantieri di un’opera voluta dallo Stato italiano contro il parere delle popolazioni del territorio interessato e imposta con uno stato di militarizzazione del territorio stesso.
Per comunicare la nostra solidarietà alle mamme No Muos che quotidianamente contrastano anche fisicamente militari americani e poliziotti affinchè non venga costruito il pericolosissimo sistema di comunicazioni satellitari della marina militare americana, vorremmo dedicare loro le parole che ci hanno inviato le donne della Val susa in occasione di un’iniziativa per il 25 aprile sulle nuove resistenze al femminile.
Vorremmo raccontare di come venti anni fà in Val Susa nessuna donna o uomo parlava di lotta; la lotta era finita con la guerra, i moti politici degli “anni di piombo” non avevano troppo smosso  la tranquilla e pacifica gente di valle, persone cresciute con la tipica educazione piemontese -lavora , non alzare  la voce, non lamentarti troppo,-era ancora molto seguita .
Ma quando alle donne hanno iniziato a picchiare, controllare, perquisire, gasare, imprigionare i  figli,allora…. qualcosa si è mosso. Quando, hanno incominciato ad avvelenare l’acqua ,a riempire di Gas l’aria e di polvere assassina le strade, anche chi aveva sempre abbassato la testa ha cominciato a pensare che dire BASTA non era poi così “fuoriluogo” e che la regola del non dare troppo fastidio poteva essere infranta….
Dal 2005 ad oggi le donne sono state le vittime preferite, scelte dalle forze dell’ordine, abbiamo avuto Patrizia pestata a Venaus, Marinella massacrata a Traduerivi, Nina, Marianna, ….Soledad….. e l’elenco sarebbe lungo, e la scelta della vittima nn è mai casuale, probabilmente nn è una questione di forza, ma una macchinazione psicologica studiata a tavolino. Se colpisci la parte femminile della famiglia, questa, per protezione, verrà tenuta a casa , dimezzando così le linee di resistenza…..però……. non hanno fatto i conti con le donne della valle!
……Noi, madri di Valle di Susa, che da anni studiamo geologia, indaghiamo i segreti degli appalti, svisceriamo le leggi dell’economia, e approfondiamo temi apparentemente lontani dalla nostra vita, come i flussi di transito, l’inquinamento acustico, la radioattività della pechblenda, che da anni abbiamo imparato a trovare il tempo non solo per i figli, la scuola dei figli, i lavori di casa, quelli fuori casa, ma anche per la presenza nei Comitati e nei Presidi No Tav, che abbiamo marciato con il nostro futuro fra le braccia, in marce interminabili, sotto il sole di giugno e nel gelo di dicembre, che nell’attesa di uno sgombero, abbiamo vegliato attorno ad un fuoco, nelle antiche notti di Venaus e in quelle nuove di Chiomonte….
Noi, che chiamiamo Madre la Terra e che ne esigiamo il rispetto dovuto alle madri, che facendo tesoro del passato non vogliamo ripetere gli errori di chi ha pensato di poter impunemente sacrificare la salute in nome del guadagno, l’onestà in nome del profitto, la bellezza in nome del denaro, e che difendendo la nostra Valle da un’opera insostenibile dal punto di vista ambientale, umano, sociale ed economico, stiamo in realtà difendendo l’intera nostra Patria e proponendo un modello di sviluppo più degno per l’intera comunità umana
Stamattina No Dal Molin insieme a No Muos, hanno sfilato insieme a Vicenza per protestare contro le basi statunitensi della città veneta e di Niscemi e per manifestare contro la sentenza di condanna a 5 mesi per alcuni attivisti No Dal Molin, emessa il 3 maggio. I fatti risalgono al 2009 e riguardano i militanti che si incatenarono alla Prefettura per protestare contro la base dal Molin a Vicenza. Un caso molto simile a quello dei due attivisti No Muos Turi Vaccaro e Nicola Arboscelli, arrestati e poi rilasciati dopo il blitz alla base militare americana di contrada Ulmo a Niscemi. Sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale e violazione di area di interesse militare.
La resistenza  delle donne non si ferma mai. Né in val Susa, né a Vicenza  né a Roma, né a Niscemi.
Vi salutiamo come fecero le madri argentine dei desaparecidos alle donne della Val Susa “ Noi Madri per Roma città aperta siamo vicine e solidali alle madri No Muos e vi sosteniamo affinchè non molliate mai.

Comitato Madri per Roma Città Aperta

Immagine da www.linksicilia.it

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Resistenza – Vittorio Arrigoni

vittorio3La storia siamo noi, la storia non la fanno i governanti codardi con le loro ignobili sudditanze ai governi militarmente più forti.

La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia e casa e un lavoro ordinario, che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani.

La storia siamo noi, che mettendo a repentaglio le nostre vite, abbiamo concretizzato l’utopia, regalando un sogno, una speranza a centinaia di migliaia di persone. Che hanno pianto con oi, approdando al porto di Gaza, come i tre anziani palestinesi vittim e della diaspora imbarcati con noi, che non hanno mai potuto piangere sulle tombe dei familiari, hanno pianto, m a non sono state lacrime di gioia.

Il nostro messaggio di pace è un invito alla mobilitazione per tutte le persone comuni, a non delegare la vita al burattinaio di turno , a prendersi di petto la responsabilità di una rivoluzione, rivoluzione interiore innanzitutto, verso l’amore, l’empatia che di riflesso cambierà il mondo.

Abbiamo dimostrato che la pace è possibile in Medio oriente. Perché se un ebreo come Jeff Harper è accolto come un eroe, addirittura come un liberatore, da ddecine di migliaia di persone festanti in estasi, da quelli che la politica e i media si impegnano a dipingere come filo terroristi, la pace non è un’utopia, e se lo è abbiamo dimostrato che a volte le utopie si concretizzano.

Basta crederci, fermamente impegnarsi, contro ogni intimidazione, timore, sconforto, semplicemente restando umani.

Restiamo umani

Vik

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Aprile 2011

Il 15 aprile di quest’anno, il primo anniversario dalla morte di Vittorio, la palestra di Bulciago si è riempita ancora una volta. “Ricordando Vik”

Mi sono chiesta il perchè, come me lo chiedo ogni volta guardando I visi attenti e partecipi delle centinaia di persone che in quest’ano ho incontrato.

Non vengono per me. Sono convinta che la risposta sia Vittorio stesso. E’ la sua voce che racconta, le immagini che scorrono , le parole dirette e chiare come solo un sopravvissuto può dirle. Sono quegli occhi che hanno visto l’orrore, ma che sanno ancora sorridere, le maniche hanno soccorso I feriti e raccolto I morti, ma che tornano ad accarezzare I bambini. E’ la gioia che ci coinvolge ascoltando l’arrivo di Gaza, I sussulti di aura quando sentiamo I proiettili sibilargli accanto.

Dal suo coraggio, dalla determinazione a condividere giorno dopo giorno la vita precaria, ma “dignitosissima” dei recluse di Gaza, dalla sua ostinata convinzione che per I diritti umani valga la pena anche dare la vita, noi, che lo ascoltiamo stupiti e commossi, riusciamo a comprendere come il sogno, l’utopia a volte si possa concretizzare. Ritroviamo la speranza. Ed è ancora Vittorio a indicarci la strada: “ Basta crederci, fermamente impegnarsi, contro ogni intimidazione, timore , sconforto, semplicemente restando umani”

Ma ascoltarlo può essere pericoloso. Vittorio ci toglie ogni alibi. Turba le nostre coscienze, ci ricorda che se la sua vita è stata una vita speciale”Palestina è anche fuori dall’uscio di casa” e ciascuno può, deve fare la sua parte perché la pace, la giustizia, la solidarietà ci diventino compagne, ovunque noi viviamo.

Anche ai ragazzi che incontro nelle scuole, che poco o nulla sanno di lui, lascio che siano I suoi video a parlare. Io racconto della nostra vita insieme, di come abbiamo sempre parteggiato per lui e per I suoi sogni. Di quanto Vittorio ci abbiamo sempre tenuto nel cuore, anche se la sua casa era diventata la Palestina, noi che eravamo le sue solide radici. Parlo del lungo cammino interiore e concreto che ha portato la sua anima inquieta alla scelta definitive di porsi totalmente dalla parte degli umili e degli oppressi, convinto che quella fosse la ragione del suo esistere.

Dico ai ragazzi di non aver mai paura  di sognare e di sognare in grande, di guardarsi attorno e sapersi indignare per le ingiustizie, di pensare a Vittorio come all’amico, al buon compagno di viaggio che ti aiuta a trovare la direzione quando sei al bivio.

…………..

Dal libro di Egidia Beretta Arrigoni ” Il viaggio di Vittorio”

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Resistenza – Ilaria Alpi

luciana2Dalle donne nella resistenza al fascismo e alle violenze, alle donne alle madri che oggi resistono e combattono per avere verità e giustizia per i loro figli strappati alla vita, assassinati: percorrere questo filo di storia è un modo forte per celebrare il 25 aprile specialmente in anni difficili come quelli che stiamo vivendo.

Grazie per questo impegno: vi esprimo vicinanza, affetto solidarietà.

Lo faccio anche a nome di Luciana, mamma di Ilaria Alpi.

Cara Ilaria,

non sappiamo se ti farà piacere questa

cronistoria di quattro anni di avvenimenti,

di lotta e di inchieste per conoscere la verità

di questo orrendo delitto che ha troncato

la tua gioia di vivere.

……….

Ti chiediamo di capirci.

Per noi questa lotta è ragione di vita, nel

tentativo, forse illusorio, di portare a termine

il tuo impegno. Non sarà facile tratteggiare

questo lungo periodo di speranze, illusioni

e grandi amarezze. Sappi, tesoro, che tante

persone ti hanno tradito, hanno cercato

di rendere difficile ogni ricerca della verità.

Un bacio  

                                             Mamma e papà

(da “l’esecuzione – inchiesta sull’uccisionedi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

di giorgio e luciana alpi mariangela gritta grainer maurizio torrealta, kaos ed. 1998)

Queste parole “scolpite” da Luciana e Giorgio Alpi 15 anni fa ci fanno ancora vibrare: sono cariche di dolore indignazione ma anche di un amore immenso per Ilaria, per la loro unica figlia e per il suo modo di fare giornalismo di cercare sempre la verità e di comunicarla. Vogliono portare avanti il suo impegno convinti già da allora che è proprio per questo  che l’hanno uccisa insieme a Miran: ha fatto e fa ancora paura. Ed è per questo che anche la ricerca della verità sulla sua uccisione è difficile ancora.

E’ l’amore che ha trasformato la loro grande sofferenza in impegno civile per avere verità e giustizia per questo delitto orrendo che riguarda tutto il paese, il suo tessuto democratico e il suo futuro.

Non è più con noi Giorgio: ci ha lasciati domenica 11 luglio 2010. Ma è sempre vicino a Luciana e anche a tutti noi: ci accompagna e ci guida in questa lotta che vogliamo condurre insieme a Luciana fino in fondo.

Come nelle molte tragedie italiane anche qui il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni hanno mentito non hanno detto tutto ciò che sapevano, altri sono morti in circostanze misteriose, che anche pezzi di Stato hanno lavorato all’accreditamento ufficiale di una falsa versione manipolando fatti reali.

Ma nonostante infiniti tentativi di chiudere questo caso da anni, l’impegno incessante di Giorgio e Luciana Alpi lo hanno tenuto aperto e grazie a loro all’associazione Ilaria Alpi al premio e alle moltissime scuole, istituzioni, migliaia di cittadine e cittadini che sono impegnati il caso è ancora apertissimo.

Siamo ancora qui non ci arrendiamo vogliamo e avremo verità, tutta la verità e giustizia.

Può essere una buona medicina anche per questa nuova fase politica che di certo esige aria pulita ripartire dal “senso della verità” e della giustizia.

Un abbraccio a tutte voi, alle madri di Roma e a tutte le madri che nel mondo lottano per la giustizia, per la verità, per la vita: insieme ce la faremo.

mariangela gritta grainer

presidente associazione ilaria alpi

aprile 2013

 

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Donne in Resistenza

Venerdì 19 aprile alle ore 18,00, all’interno del Cinema America Occupato, spazio liberato dall’abbandono e dal degrado da un collettivo di studenti medi e universitari e riconsegnato ai percorsi culturali e politici di un quartiere popolare come Trastevere, sarà ospitata l’iniziativa “Donne in resistenza” promossa e organizzata dal Comitato Madri per Roma Città Aperta. Interverranno

Stefania Zuccari, madre di Renato Biagetti
Haidi Giuliani, madre di Carlo Giuliani
Rosa Piro, madre di DAX
Lucia Uva sorella di Giuseppe Uva
Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi
Rita Cucchi, madre di Stefano Cucchi
Maria Alfonsi, zia di Cristian De Cupis
Grazia Serra, nipote di Mastrogiovanni
Maria Iannucci sorella di Iaio Iannucci
Claudia Budroni, sorella di Dino Budroni
Paola Angelucci, nipote di Leda Colombini
Miryam Marino
Lidia Menapace
Associazione Ilaria Alpi
A Roma, insieme – Leda Colombini
Le ribellule collettivo femminista
Cinema America Occupato

A pochi giorni dal 68 anniversario della Liberazione, vogliamo parlare della Resistenza come una condizione permanente delle donne e madri che si ribellano al fascismo nelle sue diverse forme passate e attuali, dalla tortura all’omicidio dalla violenza alla negazione dei diritti.
Migliaia di donne, dalla lotta di liberazione ai giorni nostri, hanno mostrato con quale forza e determinazione fossero capaci di resistere al fascismo e ad ogni forma di violenza, per cercare giustizia e per difendere diritti negati. Lo hanno fatto per se stesse e per i loro per i figli, facendo della potenza dei loro sentimenti un valore civile di convivenza.
Ricorderemo la Resistenza per quel valore che è stato specifico delle donne che l’hanno vissuta come resistenza civile e cittadinanza attiva, senza perdere la forza dei loro sentimenti.
Le donne si sono mosse spinte spesso da grandi momenti di sofferenza , ma con uno sguardo alla costruzione di un futuro migliore, senza fascismo, senza guerra, senza violenza
Le donne che resistono oggi sono le figlie delle donne della Resistenza e come allora sono, come in tutto il mondo, il motore di ogni movimento di ogni resistenza e trasformazione. Attraverso la richiesta di giustizia conquistano una valenza politica che và al di la delle loro singole vicende, diventando cittadine resistenti alla violenza alla sopraffazione al razzismo, al fascismo declinato nelle sue molteplici forme.
Da diversi anni, in occasione del 25 aprile si cerca di raccontare le nuove resistenze, contro nuovi fascismi, contro la violenza di uno Stato che continua ad aggredire, senza rendere giustizia piena ai propri cittadini, e che non consente alle generazioni più giovani di realizzare i propri sogni.
Le nuove resistenze, come quelle al regime nazi fascista sono momenti di coraggio individuale, costruzione di reti, impegno quotidiano. Un lavoro di tessitura relazionale per fornire nuove letture di una “Festa della Liberazione” non limitata alla commemorazione, ma innervata nel presente e calata nelle resistenze individuali e sociali.

Comitato per Roma Città Aperta

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Dax, mio figlio – Dieci anni senza Dax

dax


http://daxvive.info/category/home/

Intervista di Vita online a Rosa Piro madre di Davide Cesare Dax, 22 agosto 2003

Vita: Mamma Rosa, come sta?
Rosa Piro: Al momento della tragedia non mi resi conto di quello che mi era successo. È stato talmente improvviso, talmente violento. Ero una leonessa. Adesso sono subentrati il crollo, la rabbia e la consapevolezza che Dax non tornerà più. È tutto chiaro ed è ancora più brutto. Mio marito, invece, comincia a riprendersi, con alti e bassi. Lui ha vissuto la prima settimana in modo devastante. Anzi, non l’ha proprio vissuta: era costantemente sotto sedativi. Quando ha saputo si è messo a urlare dal dolore, il suo cuore ha rischiato di non reggere.

rosa2

Vita: Dopo la morte di Dax il suo invito a non cadere nel vortice della vendetta ha avuto successo. Non si è andati più in là di qualche minaccia isolata. Come c’è riuscita?

Piro: Ammazzando un’altra persona, non avrei indietro Dax. Altri ragazzi non tornerebbero a casa, altre mamme soffrirebbero. L’unico mio desiderio è riavere mio figlio. Il fatto che i suoi amici lo abbiano capito, mi ha reso felice. Così come tutte le iniziative che hanno preso per raccogliere fondi in favore di Jessica e la lastra in suo omaggio affissa sul luogo dell’assassinio.

Vita: Anche lei chiamava suo figlio Dax?
Piro: No, solo adesso lo chiamo così, prima era solo il mio Daviduccio.

Vita: Come si reagisce alla morte di un figlio?
Piro: Cercando di tener vive le sue idee, che prima magari mi mettevano dei dubbi; oggi invece sono convinta di quello per cui lottava. Erano dubbi dettati dalla paura che gli potesse succedere qualcosa. Le sue battaglie erano il diritto alla casa e la lotta allo spaccio di droga. Io e suo padre spesso gli chiedevamo chi glielo facesse fare, gli dicevo: «tu vivi per gli altri, non per te stesso». Sa cosa mi rispondeva?

Vita: Cosa?
Piro: «Va bene, avete ragione voi, continuiamo a coltivare il nostro orticello, quando mangiamo noi, abbiamo mangiato tutti, quando abbiamo la casa noi e ci siamo indebitati fino al midollo, andiamo bene, perché così vogliono che facciamo, come tanti pecoroni». Sembrava instancabile. Ogni sera, dopo una giornata di lavoro sul camion, si riposava un’oretta e via alle assemblee e alle riunioni con i suoi amici. Aveva una logica disarmante, almeno per me che ho le sue idee. Certo come mamma stavo in pensiero.

Vita: E suo padre come reagiva?
Piro: Arcangelo ha una prospettiva diversa, lui non capiva perché si dovesse impegnare così, in fondo cosa gli mancava? «Niente», rispondeva Dax, «ma se non lottiamo ci toglieranno tutto».

Vita: Suo figlio negli anni delle superiori si era avvicinato a ragazzi di destra. Poi i centri sociali, tanto che negli ultimi mesi aveva deciso di vivere all’Orso di via Gola. A Dax piacevano gli estremismi, almeno in politica?
Piro: Lui si lasciava affascinare dalle cose. Era un passionale. È vero, da piccolo si era avvicinato a un gruppo di destra, ma poi ha capito la differenza: per alcuni diritti lottano solo quelli di sinistra. È difficile trovare uno di sinistra che faccia il dirigente aziendale, mentre è più facile che il ricco sia di destra. Lui non poteva appartenere socialmente a un ceto e lottare per un altro.

Vita: Lei ha mai fatto attività politica?
Piro: Sono iscritta alla Cgil, presto farò la tessera per Rifondazione comunista nel circolo che frequentava Dax. Di sicuro sono di sinistra e vado alle manifestazioni.

Vita: Cosa c’entra la politica nella morte di Davide?
Piro: Tutto. Se non fosse stato un militante non sarebbe stato ammazzato in modo premeditato. Non è caduto durante una scazzottata in discoteca, magari battendo fortuitamente la testa. Lo hanno aspettato armati. Con un coltello in mano.

Vita: Dax era una testa calda?
Piro: In prima linea si trovava a suo agio. Era un attivista, gli piaceva lottare sul campo, quando c’era da fare volantinaggio o andare in manifestazione in mezzo agli idranti non si nascondeva. Ma non era un leader. Il carisma lo riconosceva agli altri. Certo se incontrava un fascista, magari qualche parola scappava.

Vita: Mai avuto problemi con la giustizia? Piro: Due denunce: una per travisamento, l’altra per aver partecipato a una marcia non autorizzata.

Vita: Lei ha avuto occasione di incontrare Heidi Giuliani. C’è qualcosa che vi lega? Piro: Le nostre vite sono intrecciate. Dax ha pianto la morte di Carlo come fosse un suo fratello, e in fondo non lo conosceva. Heidi ha fatto lo stesso al funerale di Davide. Io, poi, ho sempre ammirato la dignità con cui lei e Giuliano Giuliani hanno portato avanti anche pubblicamente il loro dolore. Li ammiravo e non sapevo che due anni dopo sarebbe toccato a me. Anche la fine dei nostri ragazzi è simile: entrambi lottavano per un futuro migliore, entrambi sono stati descritti come disgraziati, vagabondi, senza famiglia, buoni a nulla. Entrambi sono morti per le loro idee.

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Per non dimenticare Cristian De Cupis

“Un uomo entra accompagnato negli uffici della polizia ferroviaria da due agenti. Cammina sulle sue gambe. È ubriaco. Poco Un’ora più tardi lo stesso uomo esce dagli uffici della polizia ferroviaria sdraiato su una lettiga. Morirà in ambulanza nel giro di pochi minuti”.

Le immagini del video all’interno della Stazione di Milano nel settembre del 2008 mostrano un battibecco tra gli agenti ed un senzatetto, che viene portata all’interno della stazione, dove si trova il posto di polizia. È il 6 settembre 2008, sono le otto di sera. Il referto medico parla di «decesso di natura traumatica». L’autopsia, eseguita nelle ore successive, sarà più chiara. Emorragia interna. Due costole rotte, una delle quali perfora la milza, e lividi sul volto..

I poliziotti dichiarano che l’uomo avrebbe estratto un coltello e tentato di colpirli. Loro si sarebbero limitati a disarmarlo e ad ammanettarlo, per poi chiamare l’ambulanza, dal momento che continuava a lamentarsi per un forte dolore al petto. Una versione confutata dall’autopsia: la vittima ha evidenti segni da trauma sul corpo, in particolare una costola fratturata che gli aveva perforato la milza.

Per l’omicidio di Giuseppe Turrisi Emiliano D’Aguanno e Domenico Romitaggio, sono stati ritenuti colpevoli, oggi dalla Corte d’Appello di aver picchiato l’uomo fino ad ucciderlo perché nutrivano astio nei suoi confronti e li ha condannati scontare 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. Si è chiuso così, con una sentenza molto più pesante di quella di primo grado, il processo d’appello che vedeva al centro quello che secondo l’accusa fu un pestaggio brutale. Nessuna attenuante in appello è stata riconosciuta ai due imputati I giudici hanno confermato, infine, il risarcimento a carico degli agenti e a favore del figlio della vittima. Il pm aveva chiesto anche per entrambi, accusati anche di calunnia e falsità ideologica in atto pubblico per avere alterato la verità nella ricostruzione dei fatti

Il 9 novembre 2011 alle ore 9, Christian – 36 anni, abitante del quartiere Garbatella a Roma – viene fermato dalla polizia ferroviaria presso la stazione Termini, accusato di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Dopo nove ore trascorse presso la stazione degli agenti ferroviaria. Christian viene condotto al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito di Roma dove denuncia di aver subito delle percosse. Il giorno successivo Cristian viene trasferito al reparto di medicina protetta dell’ospedale carcerario Belcolle a Viterbo.

La mattina di sabato 12 novembre Cristian viene trovato morto nella sua stanza d’ospedale La famiglia viene avvertita solo a morte avvenuta e non è stata messa nelle condizioni di inviare un perito di parte all’autopsia.

Le morti causate dalle forze dell’ordine negli anni si sono ripetute con rituali aberranti di dichiarazione false e depista menti, con atteggiamenti sprezzanti da parte dei responsabili in divisa e difese di corpo da parte dei colleghi, anche davanti a prove evidenti e brutali di colpevolezza. Nel nostro Paese lo Stato può sottrarre una persona, attraverso i fermi, sospendendo ogni diritto umano e costituzionale di comunicazione con i legali e le famiglie e restituirla morta.

Molti decessi avvenuti nei luoghi di detenzione in carcere sono stati archiviati come suicidi e morti naturali. Ma i familiari e cittadini si sono ribellati e in tutto il paese continuano a chiedere verità e giustizia per ……Stefano Frapporti, Manuel Eliantonio, Stefano Cucchi, Federico Aldovrandi, Rasman, Mastrogiovanni, Marcello Lonzi, Daniele Franceschi, Aldo Bianzino………. Riteniamo che sia importante per i cittadini e comitati che sostengono i familiari di queste vittime mantenere la visibilità delle storie e continuare a chiedere giustizia e verità.

A più di un anno dalla sua morte continuiamo a chiedere a giustizia e verità per Christian, .

Non si può morire così….

Comitato madri per Roma Città Aperta

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