Renoize 2012: musica e parole per ricordare Renato Biagetti

Un filo nero tra organi di stato, forze dell’ordine e nuovi (vecchi) fascismi.Dalle repressioni dei movimenti contro i G8 ( Napoli, Genova) alla repressione delle lotte sociali e alla criminalizzazione del disagio sociale.


Per ricordare Renato oggi nel 2012, il Comitato delle madri per Roma Città Aperta vuole ripartire da Genova, da un evento all’interno del quale si sono evidenziate tutte le forme di un attacco fascista ai cittadini , dalla provocazione squadrista, dal coinvolgimento delle istituzioni soprattutto quelle legate al ministero degli interni e delle forze dell’ordine, e dalle forme di tortura usate alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Nel processo per i 25 manifestanti, 15 vengono scagionati perchè si riconosce che l’attacco illegittimo e ingiustificato e sproporzionato alla situazione con il deliberato attacco al corteo autorizzato di via Tolemaide e con i conseguenti movimenti di piazza di polizia e carabinieri che hanno portato alla morte di Carlo Giuliani.
E’ proprio da qui che il nostro Comitato vuole ripartire , dal ricordo e dall’impegno di Haidi e Giuliano Giuliani nel chiedere verità e giustizia per Carlo, caso che viene invece vergognosamente archiviato. Vogliamo ripartire dall’impegno che Haidi in qualità di senatrice della Repubblica per la costituzione di una Commissione di inchiesta sui fatti di Genova che non è mai stata concessa e che resterà l’ennesima pagina di strategia della tensione nel nostro paese.
Ripartiamo da Genova e da Carlo perchè secondo noi c’è il rischio che tra le tanti morti di stato che dopo Genova si sono susseguite per mano delle forze dell’ordine e dei sistemi repressivi, la morte di Carlo e la vicenda di Genova sono entrati in una zona di archiviazione all’interno della società civile, fatto pericolosissimo per il mantenimento della memoria della nostra storia.
Genova e Carlo devono rimanere la nostra memoria viva, un impegno costante di e ricordo e di lotta.

La sentenza definitiva sulla “macelleria messicana” praticata alla scuola Diaz e la conferma delle condanne a carico dei più alti gradi della polizia (nessuno andrà in galera, ma almeno sono stati rimossi dal servizio) hanno finalmente contribuito a fare un po’ di chiarezza sui tragici avvenimenti genovesi del luglio 2001. E’ stata confermata la novità fondamentale introdotta ad opera del governo di destra, e dopo di allora adottata nella gestione del cosiddetto ordine pubblico nei confronti dei movimenti sociali: reprimere con il consenso della opinione pubblica. Come? Utilizzando frange del tutto estranee, autentiche o più convenientemente costruite e infiltrate, lasciate libere di esercitare su vetrine, bancomat, automobili ogni sorta di violenza, per poi rivolgere la repressione più selvaggia e insensata sui veri manifestanti. Questo è stato il modello Genova, a questo hanno pensato che potessero servire poi la irruzione e il massacro di 93 persone pacifiche all’interno della scuola Diaz, con il contorno della costruzione di prove false ().
Nell’intenzione dei promotori l’operazione Diaz doveva servire a rimediare a quella che molti consideravano una gestione fallimentare dell’ordine pubblico: una gestione, cioè, che nella giornata di venerdì 20 luglio aveva portato all’omicidio di Carlo Giuliani ad opera di un reparto di carabinieri e il sabato 21 a cariche irresponsabili e inqualificabili contro un corteo pacifico da parte di poliziotti e finanzieri, del tutto indifferenti invece nei confronti di sparuti gruppetti di cosiddetti black bloc.
Non è affatto escluso, invece, che dovesse rappresentare la conclusione di una strategia che aveva visto accompagnare le violenze contro i manifestanti dal pieno consenso di una vasta parte dell’opinione pubblica caduta nella trappola avvalorata da una informazione compiacente. In ogni caso, non può non destare stupore la decisione della cassazione di escludere che l’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, oggi sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega ai servizi segreti, potesse essere in qualche modo coinvolto nelle decisioni operative (in appello De Gennaro era stato condannato a un anno e quattro mesi).
Non si è ancora giunti alla sentenza definitiva per le torture praticate all’interno della caserma di Bolzaneto (l’Italia è uno dei pochissimi paesi annoverati come civili a non avere ancora nel codice il reato di tortura). E’ noto invece che il fatto più grave avvenuto a Genova, l’omicidio di Carlo, non sia stato ritenuto degno neppure di un dibattimento processuale, ma archiviato a partire da una indecente invenzione dei consulenti del pubblico ministero che, nonostante l’evidenza di filmati, fotografie e testimonianze, hanno stabilito lo sparo per aria e l’occasionale deviazione del proiettile da parte di un calcinaccio che volava in piazza Alimonda.
La decisione della famiglia di indire una causa civile avrà l’unico scopo di poter affermare in un’aula di tribunale la verità che risulta dalle fonti documentarie e denunciare le ulteriori violenze praticate su Carlo morente (un carabiniere gli spacca la fronte con una pietrata per mettere in atto uno squallido tentativo di depistaggio: l’uccisione di Carlo da parte di un manifestante con il suo sasso, come gridato in piazza dal vice-questore Adriano Lauro, referente per il reparto di carabinieri!).
E’ arrivato invece a sentenza definitiva il processo contro venticinque manifestanti, per i quali la procura genovese recuperò dal codice fascista Rocco l’articolo (questo e altri sono tuttora in vigore) che prevede l’associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. L’accusa è caduta per 15 degli accusati, ma è rimasta tristemente in piedi per gli altri dieci, con il risultato di condanne fino a 15 anni per danni alle cose, pene che in Italia si comminano raramente persino per un omicidio. Va purtroppo ricordato, a conferma, che i quattro poliziotti che hanno assassinato Federico Aldrovandi sono stati condannati ciascuno a tre anni e mezzo, che moltiplicati per quattro fanno appunto 14 anni! La sentenza ha ribadito (ed è, insieme alla caduta dell’imputazione per molti, un aspetto positivo) che la reazione dei manifestanti era stata ingenerata “da cariche violente e ingiustificate dei reparti dei carabinieri” impegnati in via Tolemaide contro il corteo autorizzato delle tute bianche (e sono proprio quelle cariche all’origine dei fatti che portano successivamente all’omicidio di Carlo). Ma resta, oltre alla preoccupazione per la sorte di dieci persone, lo stupore per una sentenza che riduce la responsabilità di quanto accaduto a Genova (“messa a ferro e fuoco”, come la destra e una informazione connivente hanno ripetuto fino alla nausea) a dieci “batman”, che sedicimila appartenenti alle forze dell’ordine (tanti ne erano stati mobilitati a Genova, fra poliziotti, carabinieri, finanzieri, incursori della marina e addetti alle batterie missilistiche) non sono stati in grado di fermare! (Giuliano Giuliani)

LA CRIMINALIZZAZIONE DEI MOVIMENTI E DEL DISAGIO SOCIALE E LE MORTI DI STATO

Genova ha comunque reso chiaro un altro disegno dello Stato che in questi ultimi dieci anni ha trovato il massimo della sua espressione : La criminalizzazione e la carcerazione di intere categorie sociali
Dopo l’indulto del 2006 le nostre carceri si sono di nuovo riempite, grazie alle leggi liberticide degli ultimi governi, ( gestione dell’ordine pubblico, uso delle droghe, immigrazione. E come Genova ha significato la sospensione della democrazia, così il carcere è ormai diventato nel nostro Paese, il luogo per scelta istituzionale di sospensione dei diritti umani. Dal 2000 ad oggi sono morte nel carcere 2033 persone , 170 persone all’anno, una persona muore in carcere ogni 2/3 giorni.
Molte di queste morti sono archiviate e in molti casi i responsabili restano impuniti. Su questo tema il Comitato delle madri, nel ricordo di Renato, ha intrecciato il proprio impegno con quello dei familiari di molti ragazzi morti in carcere o per mano delle forze dell’ordine, che chiedono giustizia e verità per ridare dignità ai propri figli spesso indicati come drogati, balordi, disagiati.
Per questo non ci bastano quelle poche sentenze arrivate di colpevolezza con pene irrisorie e cancellate dall’indulto e accompagnate da offese e parole infami nei confronti di madri a cui hanno ucciso il proprio figlio.
Proprio nell’ultimo anno , il nostro Comitato ha aderito al Comitato per Christian De Cupis, un ragazzo di Garbatella di 36 anni, fermato dalla Polfer il 9 novembre del 2011 a Termnii e rilasciato morto il 12 novembre dal carcere di Viterbo.

IL FASCISMO E L’ISTITUZIONALIZZAZIONE DEI GRUPPI NEONAZISTI ( CASA POUND, FORZA NUOVA)
Ancora uno dei nostri impegni fondamentali di Comitato delle madri è l’esercizio dell’antifascismo perché nella morte di Renato, nelle lame che lo hanno colpito , c’è tutto il messaggio fascista dell’odio contro il diverso. Contro questi diversi stati effettuati, sgomberi di campi nomadi e di gente senza casa, tentativi di omicidio e omicidi in varie parti del nostro paese portati avanti da gruppi neofascisti e neonazisti.
La morte di Renato giunge e viene seguita da una serie di aggressioni fasciste a Roma e nel resto del nostro Paese a dimostrare che la lotta antifascista è ancora un impegno da vivere sia nel ricordo dei giovani caduti antifascisti ( da Valerio verbano a Dax) ma anche denunciando le tante forme di fascismo vecchie e nuove create dai Governi e da gruppi neofascisti e neonazisti che trovano accoglienza nelle istituzioni stesse.
In particolare in questi ultimi anni hanno trovato spazio nelle istituzioni rappresentanti di gruppi neonazisti e neofascisti come Forza Nuova nelle periferie romane, e Casa Pound sostenute dalle amministrazioni pubbliche locali. Queste forze presenti nelle nostre istituzioni dialogano con questa nuova crescente internazionale di destra, che si sono manifestate anche con orribili forme omicidi e stragiste.
Milano è scenario annualmente di raduni di, una nuova internazionale nera con ipernazionalisti, neofascisti, neonazisti Per l’Italia i rappresentanti sono Fiamma tricolore che ha organizzato le giornate milanesi. Ancora Milano nel 2010 ha ospitato i raduni di Forza Nuova che ora si unisce con Alba dorata , la formazione greca di ultradestra.



Ma Milano antifascista resiste attraverso la memoria di Dax libero e ribelle portata avanti con una forza irresistibile da sua madre Rosa.

 

 

LA MEMORIA OGGI

Ma noi movimento resistente, noi madri che non ci fermiamo davanti alla morte dei propri figli  vogliamo rilanciare sugli obiettivi e sulle lotte che ancora ci aspettano, che non sono quelle della giustizia dei tribunali, ma quella del ritorno alla vita e ai propri sogni.  Ai sogni di Carlo, ai sogni di DAX, ai sogni di Federico ai sogni di Renato. Sogni di vita, di anarchia, di impegno di sorrisi e di lotta, di antifascismo

Per questo stasera, per attualizzare il nostro antifascismo,  vogliamo ricordare la lotta di Carla Zappelli, madre di Valerio Verbano chè è morta aspettando che gli assassini di suo figlio suonassero alla porta. La verità giudiziaria non è mai arrivata, le indagini sono state aperte, chiuse e ancora riaperte nel 2011.

Vogliamo proporre come comitato delle madri  all’interno del  Circolo ANPI Biagetti la proposta  per un’onorificenza alla resistenza per Carla Verbano come partigiana resistente

 

Nelle motivazioni delle medaglie alla resistenza alle donne partigiane emergono  spesso l’impegno senza sosta per gli ideali partigiani,  le capacità di organizzazione e di collegamento, la sofferenza della tortura.

Noi Madri pensiamo che Carla Zappelli , madre di Valerio Verbano, ucciso dai fascisti abbia avuto  per trentadue anni, dalla morte del figlio, a cui fu costretta ad assistere ( quale tortura  peggiore!) tutte le caratteristiche che ci portano a chiedere per lei il riconoscimento di resistente partigiana.

Per 32 anni Carla non ha smesso di essere  punto di riferimento nell’impegno antifascista e nell’impegno per la giustizia perché si arrivasse alla verità, riuscendo due anni fa a far ripartire le indagini, con una rara forza di volontà e decisione.

Un simbolo. Questo è diventata Carla la mamma di Valerio. Un punto di riferimento nel nome di Valerio per molti giovani, e non solo. Un punto di riferimento per un intera città antifascista e per un intero movimento antifascista in tutto il nostro paese.

Ha elaborato strumenti di comunicazione estremamente efficaci ( blog, libri) per mantenere sempre viva la necessità di avere giustizia e verità sulla morte di Valerio.  

Ha raccontato tutto in un libro, Sia folgorante la fine, uscito due anni fa. Ha scritto Carla Verbano: «……. Capirai, folgorante, alla mia età. Io come inizio ho scelto la cosa più innocua che ci sia, un sogno. Perché quando mi sveglio, ogni mattina da trent’anni, voglio tutt’altro: sia folgorante la fine, di questa storia».

Un riconoscimento di combattente partigiana e resistente  contribuirà a rendere più folgorante la sua fine.

3 Settembre 2012

 

Pubblicato in Generale | Commenti disabilitati su Renoize 2012: musica e parole per ricordare Renato Biagetti

Perché è morto Nicola Tommasoli?

Perché è morto Nicola Tommasoli? Lunedi 30 aprile 2012 – ore 20.00 Piazzetta Nicola Tommasoli (Porta Leoni)

Quattro anni fa, Nicola è stato ucciso in seguito all’aggressione da parte di cinque coetanei, cinque “normali” ragazzi veronesi, per uno stupido pretesto: una sigaretta rifiutata. Il sindaco di Verona commentò allora che cose di questo tipo capitano “una volta su un milione”.

VERONA – Lunedì 30 aprile 2012 – dalle ore 20.00
Piazzetta Tommasoli (Porta Leoni) Verona
Mobilitazione Antifascista

Ma l’aggressione di Nicola veniva dopo una lunga serie di fatti simili accaduti nelle strade del centro città, e non è stata l’ultima. Alcuni degli assassini avevano già partecipato ad altre aggressioni, tutte contro persone identificate in qualche modo come “diverse”. Frequentavano gruppi dell’estrema destra cittadina, così come la tifoseria dell’Hellas Verona.

Nel marzo 2003, durante un’aggressione da parte di tre “cani sciolti” neofascisti, muore accoltellato a Milano Davide “Dax” Cesare, attivista di un centro sociale milanese.

Nell’agosto 2006, dopo una serata di musica in spiaggia, Renato Biagetti viene aggredito e ucciso nei dintorni di Roma perché “diverso”, perché quello “non è il suo territorio”.

Nel luglio 2011, a Oslo e Utoya (Norvegia), Anders Breivik fa strage, con esplosivi e armi da fuoco, uccidendo 77 persone e ferendone molte altre. Breivik, estremista di destra, parla di sé come un novello crociato e dichiara di aver agito per difendere la tradizione cristiana contro l’Islam, il multiculturalismo e il marxismo.

Nel dicembre 2011, a Firenze, Gianluca Casseri, scrittore fantasy antisemita iscritto a CasaPound, spara contro commercianti ambulanti di colore, uccidendone due e ferendone altri.

Sono fatti diversi, difformi nei numeri, accaduti in momenti e in contesti diversi. Ma cosa li accomuna, oltre all’esito tragico? Li accomuna l’idea che ciò che conta è l’identità di sangue e suolo, di territorio; tutto ciò che è altro, che viene da un ‘altrove’ (un migrante, un giovane di idee o di aspetto ‘diversi’) rappresenta un nemico, un pericolo da disprezzare, combattere, annientare.

E questa idea, che ha in sé i germi della violenza, è parte di una più ampia ideologia, che cerca risposte alla complessità dei problemi sociali con la gerarchia, con le imposizioni, con la negazione delle libertà, con il diritto dei forti di sottomettere i deboli. In due parole: razzismo, fascismo.

Oggi a Verona una lapide commemorativa di freddo marmo è l’unico segno di quanto successo, dopo che il Comune ha fatto ripulire l’area dalle centinaia di fiori, messaggi, oggetti che tanti cittadini avevano lasciato come segno di partecipazione. E a Nicola il Comune ha intitolato il centro civico costruito sulle macerie del centro sociale autogestito La Chimica, sgomberato e abbattutto poco dopo l’insediamento della Giunta Tosi.

Nel frattempo, i gruppi neofascisti come CasaPound hanno continuato ad essere sostenuti (e a sostenere) l’Amministrazione comunale. Così come un candidato sindaco per Forza Nuova, leader dei “butei” della Curva Sud, solo pochi giorni fa ha ribadito per l’ennesima volta che i cori razzisti allo stadio non sono altro che “goliardia”.

Ecco, sembra sempre che Verona non voglia crescere. Rifugiandosi in facili autoassoluzioni e in rapide amnesie. Noi siamo veronesi e, non di meno, cittadine e cittadini del mondo. Amiamo la libertà, e odiamo il razzismo. E crediamo che, se il governo di una città è connivente con i gruppi neofascisti e gli ambienti in cui gli assassini razzisti degli anni Duemila trovano modo di muoversi e proliferare, quell’Amministrazione non ci può rappresentare. Non può parlare anche in nostro nome.

Perché anche per questo, purtroppo, è morto Nicola Tommasoli.

Alla serata interverranno voci individuali e collettive tra cui:

– Giampaolo Romagnani, docente di Storia moderna – Università di Verona;
– Germana Villetti e Stefania Biagetti, mamma di Renato Biagetti (aggredito e ucciso a Roma) del Comitato Madri per Roma Città Aperta;
– Interventi, scritti, riflessioni sulla realtà politica locale e in ricordo di Nicola;
– Cronistoria delle vicende passate e presenti della politica veronese;
– Proiezione del video “Restiamo umani – the reading movie” lettura dei capitoli dell’omonimo libro di Vittorio “interpretata” da alcuni esponenti del mondo dell’arte e della
cultura vicini alla causa palestinese, la madre di Vittorio Arrigoni recita il primo capitolo.
– Cafè Desordre in concerto.

da Radio popolare Verona

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su Perché è morto Nicola Tommasoli?

La voce di Rosa, madre dal carcere del Chiapas

LETTERA DI ROSA DURANTE L’INTERVENTO NEL VI ANNIVERSARIO DE “LA VOZ  DEL  AMATE”, Gennaio 2012

Compagni, compagne, anziani e bambini buongiorno a tutti voi qui presenti e al pubblico in generale; anche a quelli che non sono potuti venire per vari motivi ugualmente vanno i nostri saluti.

Oggi 8 gennaio 2012 ho il piacere di condividere con voi una breve storia e un’esperienza vissuta durante i 39 giorni di digiuno che è stato duro e difficile.

 Primo: è duro prendere una decisione soprattutto qui in carcere nel dichiararsi in resistenza di fronte all’ingiustizia: bisogna essere consapevoli, ed esserlo significa amare la vita, amare se stessi. E’ per questo che mercoledì 28 settembre 2011 l’organizzazione la “Voz del Amate”, insieme con noialtri de “los Solidarios de la Voz del Amate”, tutti aderenti all’Altra Campagna del EZLN, abbiamo preso la decisione di far sentire le nostre voci alla società denunciando l’ingiustizia che stiamo vivendo nella nostra prigionia.

 Fu così che il 29 settembre verso le 10,30 del mattino ci siamo dichiarati alcuni in sciopero della fame ed altri in digiuno e tutti in presidio permanente; io fra loro.

 Cominciai il mio primo giorno di digiuno, non nego di avere avuto paura, mi sentivo sola, ebbi paura quando il direttore mi disse di smettere di fare ciò che stavo facendo, e che non mi dovevo ferire così smettendo di mangiare, e mi sentii sola quando mi disse che mi avrebbero tolto mio figlio, ma persino così non gli mostrai la paura. Gli risposi che non potevano togliermi mio figlio.

 Il giorno seguente arrivò una incaricata della Procura della Donna minacciando nuovamente di togliermi mio figlio e per evitare che ciò succedesse, disse, dovevo lasciare il digiuno. Le risposi che non poteva impedirmi di continuare il digiuno nemmeno con le minacce, poteva fare come voleva ma mio figlio rimaneva con me. Quella mi disse: “te lo toglierò  e lo vedrai”, e cosi se ne andò.

 Io non sapevo che fare, solo parlai per telefono con un compagno spiegandogli quello che mi era successo e lui mi disse: “non ti preoccupare non te lo possono togliere”, così passarono tre giorni  sino alla domenica  quando arrivarono i compagni a visitarmi che mi dissero: “coraggio, non sei sola, i compagni dello sciopero stanno bene, stanno con te e anche noi”. Fu così che incominciai ad avere fiducia in me stessa, nel sapere che molti compagni e compagne lì fuori stavano attenti a quello che mi succedeva; così non mi sentivo sola.

 Fecero anche foto a mio figlio, lo psicologo venne fino alla mia cella a farmi foto e a chiedermi di mangiare perché non mangiando poteva venirmi il diabete.  Io lo ringraziai per la sua considerazione.

 Passavano i giorni e mi veniva sempre più voglia di dare seguito alla lotta solo vedendo mio figlio, tanto piccolo e innocente, che senza avere nessuna colpa sta qui con me vivendo tra le sbarre; a volte il piccolo guarda un giocattolo o qualcosa che desidera mangiare e mi duole il cuore perché non posso comprarlo. Questo dolore e questa tristezza di vedere mio figlio che non può godersi la sua infanzia come dovrebbe essere, questo dolore, dunque, mi spinge a continuare a lottare contro l’ingiustizia che c’è nel nostro paese.

Così ho continuato il digiuno, giorno dopo giorno, tra minacce e provocazioni, ma con l’aiuto di Dio e vostro, ho potuto reggerlo sino al 2 novembre, giorno  in cui mi arriva la notizia più dura, la più difficile: mia madre mi disse che mio figlio Natanael era morto il 26 ottobre. Non potevo crederlo.

Quando mia madre me lo disse, sentii che tutto era finito e mi dissi basta così, non ne posso più. Il dolore e la morte di mio figlio mi lacerarono l’anima, mi sentii sia impotente che incatenata dai piedi sino alle mani, perché non potevo andare a dire addio a mio figlio. Sentivo che non potevo andare avanti; quel giorno non mangiai, nemmeno il giorno seguente, mi misi a piangere ricordandomi che mio figlio nacque malato per le botte che mi diedero ed era morto come un bimbo indifeso a 4 anni.

Oggi mi domando che castigo hanno ricevuto i colpevoli della morte del mio Natanael… nessuno, essi continuano felicemente a godersi la vita, continuano a esercitare quel potere che hanno di torturare altre donne innocenti. Quindi mi dissi, “No, questo non è un buon motivo per azzittirsi, ma anzi per andare avanti”. Il mio dolore mi dette coraggio, la rabbia degna di questo dolore, e un altro motivo fu mio figlio Leonardo, mi vide piangere e mi abbracciò. Ascoltando la sua dolce voce che mi consolava mi diceva “mamma” e mi asciugava le lacrime, mi dissi che non dovevo smettere di lottare, dovevo continuare la lotta per lui e per i suoi diritti, deve avere una vita degna come tutti i bambini.

Durante il digiuno ho sentito che questa lotta mi è servita a farmi coraggio, ho capito di non aver paura, di non essere sola, di non lasciarmi sottomettere, perché ho tutta la dignità di difendere i miei diritti, perché so che non sono sola, e per l’ingiustizia che c’è, per la quale mio figlio Leonardo non ha una vita degna, non deve vivere in carcere; in memoria del mio Natanael, lotterò contro l’ingiustizia affinché nessuna madre soffra come io sto soffrendo.

Durante il digiuno ho imparato ad avere fiducia in me stessa, ora so che ho dei diritti e che li devo far valere, so che con l’aiuto di Dio e il vostro potrò continuare la mia lotta. Avere  mio figlio qui con me mi dà forza per andare avanti; non devo azzittirmi ma al contrario devo gridare di fronte a tanta ingiustizia che c’è nel nostro paese e soprattutto nel Chiapas. Sono convinta che solo lottando insieme potremo cambiare il nostro Messico che tanto amiamo.

Compagni e compagne vi esorto a non stancarci, a non perdere fiducia, prima o poi arriverà la giustizia che tanto aneliamo perché Dio è giustizia e amore.Auguro a tutti che questo anno 2012  dia buoni risultati a tutti noi.

Grazie per avermi ascoltata.   Rosa Lopez Diaz 

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su La voce di Rosa, madre dal carcere del Chiapas

ROSA LOPEZ DIAZ: una madre nelle carceri in Chapas

ROSA LOPEZ DIAZ

 Data di nascita: 2 Dicembre 1978

Luogo di nascita: San Cristobal de las Casas.

Stato civile: Coppia di fatto

Lingua: Tsotsil

Numero familiari: 1 figlio di 3 anni (più uno di 4 anni, morto il 26 ottobre 2011) e il compagno Alfredo, detenuto.

Domicilio attuale della famiglia: Jardin de Nuevo Eden, Teopisca. Il figlio vive con lei.

Organizzazione: Solidarios de la Voz del Amate

Incarico nella comunità: non ha incarico nella sua comunità

Occupazione: Commerciante di abiti e accessori

Pratica Penale: 056/2007

DETENZIONE
Rosa Lopez Diaz fu arrestata il 10 maggio 2007 insieme a suo marito nel parco centrale di San Cristobal de las Casas, da alcune persone vestite in abiti civili. La gettarono immediatamente a terra. Non si identificarono, sentì che il suo partner (il compagno Alfredo) chiese loro di identificarsi però non lo fecero. La condussero fino ad una camionetta e la sdraiarono, mettendole un piede sopra. Le bendarono gli occhi. Trascorso un tempo la gettarono in un luogo che teneva foglie secche nel suolo. Senza levarle la fascia dagli occhi cominiciarono a picchiarla. Si misero a torturarla coprendole la  testa con una busta mentre le tapparono la bocca mettendole uno straccio bagnato con l’intenzione di asfissiarla. La colpirono allo stomaco.

Rosa chiese loro di fermarsi perché era incinta ma non si fermarono.

Dopo la riportarono sulla camionetta e la condussero in un luogo sconosciuto.Qui capì che era sola, ossia che non stava con il suo compagno. La tennero inginocchiata, ammanettata e con gli occhi bendati. Rosa chiese loro: “Cosa sta succedendo?”. Le risposero: “Questo non ti importa, perché ora sei finita”.

Rosa ci racconta: “Piansi, piansi, perché non sapevo cosa mi stava succedendo, piansi per la mia famiglia, per la mia mamma. Non saprei come descrivere la paura che sentii.” I poliziotti continuarono gridando: “Da qui non ti salverai. Da dove ti porteremo, non uscirai”. Dopo gli aggressori abbandonarono la camionetta e dissero a Rosa: “Non ti muovere. Se fai qualcosa, ti ammazziamo”.

Approssimativamente 40 minuti più tardi la portarono nella stessa casa dove tenevano imprigionato Alfredo. La fecero sedere contro la parete, ammanettata, con gli occhi bendati e iniziarono a colpirla.  Ripresero a torturarla. Con uno straccio umido coprirono il suo viso e sopra misero una busta di plastica. Intanto le colpivano lo stomaco. Gli aggressori le dicevano: “Quando vorrai parlare muovi la testa”. Rosa scalciava perché si sentiva asfissiata. Le tolsero la busta e le diedero tre schiaffi. “Dicci dove la tieni. Non fare la finta tonta, sai  bene di chi stiamo parlando”.

La portarono in un’altra stanza. Nell’interno della stanza  la denudarono e subì un abuso sessuale, la toccarono in tutte le parti del corpo, minacciando di violentarla. Le spiegarono che volevamo che lei ammettesse il sequestro di Claudia Estefani. Rosa piangeva e supplicava che non le facessero niente, che lei non aveva sequestrato nessuno. “Come posso dire qualcosa che non ho fatto?”, domandò Rosa.

Uno degli aggressori la buttò sul pavimento, altri due la tenevano, e Rosa sentì che qualcuno le si mise sopra, con l’intenzione di violentarla. Rosa racconta che in quel momento non ne potè più e disse: “non mi violentate, sono incinta” e uno dei suoi aggressori le disse: “Se confessi, non ti facciamo niente”. A quel punto Rosa disse loro di sì, che aveva sequestrato, sebbene fosse falso.

Così la sollevarono, la fecero uscire dalla stanza e la lasciarono sola in casa. All’improvviso ritornarono e Rosa ascoltò le grida di suo marito, Alfredo. Rosa ci riferisce: “Dissi , Grazie a Dio. È vivo”. Aveva pensato che lo avessero ammazzato.

DICHIARAZIONE

Da lì furono condotti al Pubblico Ministero, dove ricevettero nuovamente minacce di morte da parte di alcuni uomini di cui Rosa non conosce nè i loro nomi  né i loro incarichi. La obbligarono a firmare un foglio in bianco. In questi uffici potè parlare finalmente con il suo compagno Alfredo e gli chiese se sapeva perché li tenevano lì. Alfredo le raccontò che suo cugino aveva “rubato” la fidanzata, che in questi villaggi significa che la fidanzata va con suo marito senza che questo paghi la dote. “Cose da uomini” dice Rosa.

Rosa  non ha mai avuto accesso a un traduttore qualificato che conoscesse la lingua e i costumi  tsotsil. Nella dichiarazione il suo difensore di ufficio Joaquin Dominguez Trejo fu presente solo in una parte. Le lessero la dichiarazione, ma non la capì, senza il traduttore  non comprese i termini giuridici. Per questo Rosa non era d’accordo, ma la obbligarono a firmare.

Quindi la trasferirono al carcere CERSS n°5 de San Cristobal de las Casas accusata di sequestro. C’è da aggiungere che Rosa non ricevette mai cure mediche per la tortura, sia fisica che psicologica, che subì.

PROCESSO

Trascorsi 14 mesi dal momento della detenzione la sentenziarono a 27 anni, 6 mesi e 17 giorni. Lei si appellò alla sentenza, e la ridussero di 17 giorni.  Il 13 aprile 2009 fu  l’ultima volta che vide il suo avvocato.

CONDIZIONI IN PRIGIONE

Rosa soffre di forti dolori alle spalle da circa due anni. Infatti  la fa soffrire l’ora della passeggiata. Soffre forti dolori di testa e febbre. Ha un’ernia ombelicale che mette in grave pericolo la sua vita. Non ha ricevuto cure mediche sebbene le abbia sollecitate varie volte e lo abbia denunciato pubblicamente.

Rosa non ha sufficienti entrate economiche per sostenere la sua famiglia.

IMPATTO DELLA DETENZIONE SULLA FAMIGLIA E/O LA COMUNITA’

L’impatto sulla sua famiglia è stato molto grande a livello psicologico e di salute, poiché le malattie delle quali soffre la famiglia si sono aggravate per l’impatto emozionale derivato dalla reclusione di Rosa.

Rosa era incinta di 4 mesi quando la torturarono. Suo figlio nacque con paralisi cerebrale, molto probabilmente questo fu causato dalle differenti  forme di tortura che subì durante la detenzione. A causa della sua malattia, il figlio Natanael è morto lo scorso 26 ottobre 2011, a 4 anni di età.

Rosa fa parte dell’organizzazione di LOS SOLIDARIOS DE LA VOZ DEL AMATE. Dalla prigione Rosa ha denunciato in varie occasioni  il trattamento subito e le condizioni generali del settore femminile del CERSS n° 5 de San Cristobal de las Casas, così come le ingiustizie che stanno vivendo per le politiche del mal governo.

Rosa ha digiunato per 39 giorni, durante la protesta dell’ottobre 2011 organizzata nel carcere dov’èdetenuta. C’è da ricordare che durante il suo digiuno, Rosa ricevette in varie occasioni  minacce e osteggiamenti per obbligarla a lasciare la sua protesta, la quale  aveva come obiettivo esigere la sua libertà immediata così come quella dei suoi compagni di lotta.

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su ROSA LOPEZ DIAZ: una madre nelle carceri in Chapas

Appello al Ministro della Giustizia e al Ministro dell’ Interno sulla condizione delle madri in carcere e dei loro figli

Le donne e gli uomini che il 14 gennaio 2012 hanno partecipato presso il Museo storico della Liberazione di via Tasso a Roma all’incontro su questo tema si rivolgono a lei perché consideri con particolare attenzione e sensibilità  quanto segue.
Le donne rinchiuse in carcere attualmente in Italia sono circa 2600, il 4% dei detenuti. Di queste poco più di 60 sono internate insieme ai loro figli che ad oggi risultano essere  70 , di età inferiore ai 3 anni . Le detenute in stato di gravidanza oscillano intorno alle 20-30 unità. In Italia sei sono  le carceri interamente femminili e sedici gli asili nido funzionanti.
Molti studi condotti sulle donne detenute in Europa e in Italia sottolineano che la tipologia prevalente dei reati commessi dalle donne – violazioni della legge sulla droga e contro il patrimonio – rende chiara la marginalità che spesso segna le loro vite; le donne sono spesso recidive e ritornano in carcere per ripetuti e brevi periodi.
Il problema delle detenute non è tanto quantitativo ma qualitativo. Le donne hanno molti più problemi nell’affrontare la detenzione, problemi che investono sia la sfera psicologica che quella materiale; la vita detentiva, sviluppatasi su criteri espressamente maschili, mette a dura prova le donne in generale e si aggrava se le stesse sono madri.
Quasi inesistenti sono le considerazioni di quanto la vita carceraria influisca sulla maternità, sia che i figli siano dentro il carcere, sia che siano fuori, troppo poca è l’attenzione di istituzioni e società ai motivi stessi, spesso legati alla loro specificità femminile, che portano le donne in carcere, troppo poca è l’attenzione all’impatto che il carcere ha sulle donne e sulla loro vita.
Una maternità interrotta quella nelle carceri, così come interrotta è l’infanzia di quei bambini che tra 0 e i 3 anni vivono reclusi nel carcere, così come segnata per sempre è la vita dei figli fuori con le madri in carcere. Questi figli dietro e fuori le sbarre restano invisibili come le loro madri per la società e le istituzioni.
Oggi è ancora difficile parlare di maternità in detenzione. Le donne detenute vengono considerate cattive madri e incapaci di portare avanti il proprio ruolo materno e così  sulle loro maternità cala il silenzio.
La legge consente alle madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni ma il carcere, anche nelle strutture in cui sono state realizzate sezioni nido, rimane un luogo incompatibile con le esigenze di relazione tra madre e figlio e di un corretto sviluppo psicofisico del bambino stesso.
Non vi è dubbio che la detenzione domiciliare sia una modalità meno afflittiva di esecuzione della pena.
Appare,quindi, opportuno quanto necessario estendere la tutela previste per le madri detenute e garantire ad ogni bambino la continuità dei rapporti con i propri genitori laddove si consideri che sono 800.000 in Europa i bambini figli di genitori detenuti di cui 43.000 sono italiani.
Non si tratta quindi di un piccolo problema, eppure sono ancora molto piccole, molto limitate le realtà organizzate che si occupano in Italia di garantire ad ogni bambino la possibilità di salvare, non interrompere, non veder disintegrare i rapporti con i suoi genitori.
“La pena”, dice l’art. 27 della Costituzione Italiana, “non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.
Una pena che divide traumaticamente una donna da suo figlio o li costringe all’unione solo in condizioni di restrizione, è una pena disumana non soltanto per una, ma per due persone.
Anche l’Europa è intervenuta sul tema con una sua ricerca alla quale fa riferimento la proposta dell’associazione Antigone e di altre associazioni europee dal titolo “Resolution on socio-labour reinsertion of female ex prisoners”. In questa elementi  relativi alla condizione femminile nelle carceri vengono indicati come obiettivi da perseguire dagli Stati europei, come ad esempio che la detenzione per le donne deve essere considerata come ultima soluzione o che è’ necessario promuovere misure alternative e sostitutive alla detenzione in particolare per donne con bambini, favorire i regimi detentivi aperti  per le donne e che ogni stato membro dovrebbe promuovere ricerche studi e riflessioni sui bisogni specifici delle donne detenute.
Le chiediamo signora Ministro di  adoperarsi nei modi che riterrà più efficaci perché quanto richiesto alla Comunità Europea si possa attuare in Italia.
Perché nessuna madre e nessun bambino siano più dietro le sbarre.

Museo Storico della Liberazione
Comitato Madri per Roma Città Aperta

Adesioni
Associazioni, enti, gruppi

WILPF Italia (Antonia Sani)
associazione Nazionale Il Melograno Treviso
Insegnanti Evangelici (Lidia Goldoni)
Associazione Antigone (Susanna Marietti) Associazione Pantagruel Firenze

Persone singole
Samanta Chiodini – Che Tempo Che Fa -Endemol Italia s.p.a.
Luciana Mellone  Presidente de  Il Melograno Nazionale- Centri informazione maternità e nascita
Pietro Fattori
Lidia Goldoni
Gabriella Garofalo
Monime Mortaigne
Garante Avv. Angiolo Marroni Roma
Enrico Peyretti, Torino
Francesco Cagnetti, Roma
Martina Bianchi
Patrizia Barbanotti De Cecco,  (insegnante – Firenze
Andrea Baldi,  Firenze
Antonia Sani, Roma
Lia Valentini, Siena
Francesca Fusco
Imma Barbarossa
Lidia Menapace
Tiziana Valpiana
Gianna Rodinis
Maria Sartori
Adriana Sferragatta
Loredana Giannini
Mariano L. Cherubini
Anna Maria Saganic
Maria Casali
Sandra Casali
Domenica Lalich
Cornelio Stefani
Paola Tamburini – Firenze
Antonia Ruggieri
Rebecca Tommasi, Firenze
Salvatore Tassinari, presidente associazione Pantagruel di Firenze
Chiara Federico
Laura Pecchioli    art.17 Firenze
Luciana Cicini, Roma
Rino Tripodi,  Direttore “LucidaMente – La Squilla on line”
Carmen Giardina

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su Appello al Ministro della Giustizia e al Ministro dell’ Interno sulla condizione delle madri in carcere e dei loro figli

Madri e bambini dietro le sbarre

Madri e bambini dietro le sbarre
“Agente, mi apri?”

Se fossi
Se fossi una parola vorrei far nascere un sorriso sulle tue labbra.
Se fossi una fata inventerei un mondo in cui ogni cosa sia uguale.
Se fossi un occhio mi piacerebbe guardare nel tuo cuore,
nei tuoi pensieri di oggi e di ieri per scoprire gioia, emozioni e
dolori.
Se fossi un uccello ti insegnerei a volare regalandoti le mie ali.
Se fossi…
DI KATIA MANTOVANI Casa Circondariale “Dozza” di Bologna

La  condizione
Le donne rinchiuse in carcere attualmente in italia sono circa 2600 il 4% dei detenuti.
Di queste poco più di 60 sono detenute con la  presenza di 70 bambini con eta’ inferiore ai 3 anni presenti in carcere a poco meno di 70 unita’. Le detenute in stato di gravidanza oscillano intorno alle 20-30 unita’.
In Italia sono 6 le carceri interamente femminili e 16 gli asili nido funzionanti.
L’associazione Antigone riporta i dati di una ricerca condotto a livello Europeo sui problemi principali per le donne in carcere o per le ex detenute riconducibili, in tutta Europa, alla scarsa considerazione dei bisogni specifici che le donne hanno, prima, durante e dopo la carcerazione.
Gli esigui numeri che la detenzione femminile coinvolge in tutta Europa portano ovunque a trascurare la categoria sociale delle donne detenute ed ex detenute nell’elaborazione di politiche specifiche.
La  condizione sociale delle donne detenute è caratterizzata in tutta Europa da quadri ripetuti di svantaggi multipli
– madri single, con una bassa scolarizzazione, disoccupate per lunghi periodi- straniere, prostitute, tossicodipendenti- donne rom, immigrate clandestine, prive di formazione scolastica e di esperienza professionale, con figli avuti in giovanissima età
– donne tossicodipendenti, che provengono da un contesto maschile violento e hanno subito una violenza di genere, spesso con figli avuti in giovane età
Anche in Italia, come nel resto d’Europa, la difficoltà principale – – sta nell’esiguo numero di donne in carcere e nella loro dispersione in tante piccole sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili (in Italia sono 63) e in pochi istituti esclusivamente femminili (solo cinque).
le poche risorse esistenti vengono convogliate verso le masse più numerose di detenuti maschi, e quindi l’offerta di operatori, corsi professionali, corsi scolastici, attività trattamentali e lavoro per le donne, specialmente per quelle ristrette in piccole sezioni femminili, diventa scarsissima.
Inoltre, la composizione della popolazione detenuta femminile è caratterizzata dal 40% di donne ancora in attesa di giudizio e da donne condannate prevalentemente a pene brevi. Questi due fattori contribuiscono ulteriormente all’esclusione di queste donne da ogni attività in carcere: in mancanza, infatti, di un’offerta adeguata di attività, vengono escluse tutte coloro la cui pena è troppo breve per assicurare una continuità o la cui pena ancora non è stata stabilita.
Troppo poca, in particolare, è la considerazione di quanto la maternità influisca sulla vita carceraria (sia che i figli siano dentro il carcere, sia che siano fuori), troppo poca è l’attenzione di istituzioni e società ai motivi stessi  spesso legati alla loro specificità femminile -che portano le donne in carcere, troppo poca è l’attenzione all’impatto che il carcere ha sulle donne e sulla loro vita.

Maternità interrotta
La maternità in carcere è, secondo Silvia Girotti dell’associazione AVOC, una maternità interrotta, così come interrotta è la vita di quei bambini che tra 0 e i 3 anni vivono reclusi nel carcere, così come segnata per sempre la vita dei figli con le madri in carcere.
S. di 2 anni , che da un anno e detenuto corre per il corridoio del carcere e aggrappato alle sbarre” agente mi apri”
Presso la Casa Circondariale Dozza di Bologna sono accolti alcuni bambini che condividono la detenzione con la propria madre, anche se il carcere in quanto struttura detentiva, costruito perciò sulla base dei bisogni degli adulti, non è adatto al sano sviluppo di un minore. In particolare sono stati osservati alcuni effetti negativi della struttura penitenziaria sui minori. Alcune ricerche sottolineano come i bambini sviluppino un attaccamento insicuro vivendo un rapporto simbiotico con la madre e mostrino diffi-coltà anche in brevi separazioni da lei, inoltre mostrano comportamenti di forte protesta e auto-lesionistici come sbattere la testa, graffiarsi…(Poehlmann, 2005; Biondi, 1994); un altro ricer-catore ha osservato difficoltà nell’alimentazione e nel ritmo sonno/veglia con difficoltà nell’addor-mentamento (Biondi, 1994).Particolari disagi si possono vedere nello svilup-po cognitivo e linguistico che risulta ritardato poichè il carcere è un ambiente con scarsi stimoli: ibambini imparano poche parole (le prime parole possono essere “agente” “apri”…), prediligono una comunicazione gestuale ed, inoltre, la socia-lizzazione così importante nei primi anni di vita è ridotta al minimo (Poehlmann, 2005; Biondi,1994) . Infine anche nel gioco si possono osserva-re gli effetti del carcere: si nota come i bambini usino poco la fantasia e utilizzino giochi ripetitivi come aprire e chiudere le porte, quando possono farlo, (infatti imparano che devono aspettare che l’agente apra la porta) e giocano con le chiavi con un richiamo alla realtà carceraria
F. in lacrime parla dei suoi figli lontani, che non sente e non vede.
Questi bambini dietro e fuori le sbarre sono veri e propri invisibili per la società e le istituzioni.
Le donne che hanno figli fuori dal carcere mostrano molta sofferenza legata alla lontananza dai figli e all’impossibilità di svolgere il proprio ruolo di madre.
Oggi è ancora difficile parlare di maternità in detenzione. Le donne vengono considerate cattive madri e incapaci di portare avanti il proprio ruolo materno e così spesso cala maggiormente sulla detenzione materna rispetto a quella paterna una “cortina di silenzio”, alimentata dalla donne detenute stesse che non vogliono far sapere ai figli della loro detenzione
In Italia non è calcolabile il numero delle madri detenute. Gli istituti non lo sanno e le donne spesso non lo dichiarano.

Maternità e carcere, un tema delicato. “Un pensiero angoscioso”, confessa Paola Marchetti, che ha vissuto l’esperienza della detenzione. Sia per le detenute più giovani che vorrebbero, un giorno, avere un bambino, sia per coloro che sono già madri, come Paola che aveva giù una figlia quando è entrata in carcere. “C’è una grande paura di perdere i propri figli -ricorda-. Il timore di non essere più in grado, a pena finita, di ricucire lo strappo che sicuramente si crea”.
Lo strappo è una conseguenza naturale dell’allontanamento forzato, dell’impossibilità di un rapporto normale. Spesso anche della poca sensibilità degli istituti di pena nel comprendere che il rapporto madre-figlio ha bisogno di tempo e che non sono certo sufficienti sei ore di colloqui al mese per mantenerlo. “I bambini crescono senza la madre ed eleggono a figura materna altri soggetti -commenta Paola-. Riprendere il proprio ruolo a pena finita è quasi impossibile se non si vuole creare in loro altra angoscia e altra sofferenza. In ogni caso, richiede un tempo lungo, enorme pazienza ed equilibrio”

Da  Donne in carcere: la portata del castigo
http://www.contropiano.org/Documenti/2010/Settembre10/03-09-10DonneCarcere.htm
In Argentina da una ricerca condotta nel 2010 in alcuni penitenziari federali emerge con forza e preponderante rispetto agli altri temi  quello legato alla maternità delle donne incarcerate. L’85,8% delle donne intervistate ha dichiarato di essere madre. In media, le recluse che sono madri hanno tre figli e l’86% ha figli minori di diciotto anni; più di un quinto è madre di bambini minori di quattro anni. Queste donne occupano un ruolo centrale nella cura giornaliera e nel mantenimento economico dei loro figli, circostanze che aggravano le conseguenze della reclusione. Nei casi di donne con figli minorenni che non vivono più con loro per via della detenzione, le conseguenze dell’arresto in genere sono devastanti poiché la loro detenzione implica lo smembramento del gruppo familiare con gravissime conseguenze per i figli, sia sul piano affettivo-psicologico sia materiale.
Inoltre, le detenute che portano avanti una gravidanza o che convivono con i loro figli nel penale devono affrontare maggiori difficoltà delle altre. I pochi servizi previsti non coprono tutte le necessità specifiche che si presentano e le pone in una situazione di maggior vulnerabilità, poiché alle consuete difficoltà si aggiungono quelle date dalla condizione di gestante, in periodo di allattamento o per l’attenzione e la cura dei figli più piccoli.
L’impatto provocato dalla detenzione della madre sui figli minori di età riguarda non solo il vincolo madre-figlio, ma si estende anche a quasi tutti gli aspetti della vita dei bambini e adolescenti. Nel caso di bebè e bambini che vivono in carcere questo impatto è evidente, poiché patiscono le stesse condizioni deficitarie di detenzione delle madri. Nei figli minori di età che hanno perso la convivenza con la madre, alcune delle conseguenze più frequenti sono tra le altre: smembramento del gruppo famigliare, perdita di contatto con la madre e con i fratelli, pellegrinaggio da una famiglia all’altra, aumento delle incertezze economiche, abbandono degli studi o difficoltà di apprendimento, sfruttamento del lavoro infantile, depressione, problemi di salute.
L’assenza dello Stato di fronte alle necessità specifiche delle detenute e dei loro figli si avverte nella mancanza di consulenza, assistenza o accompagnamento nel processo seguente all’arresto per decidere del destino dei figli minori di età e per fare in modo di preservare il loro vincolo. Questa mancanza di attenzione dello Stato accentua la vulnerabilità delle donne recluse e lascia senza protezione bambini e adolescenti che, spesso, si trovano in situazione di abbandono.
Di fronte alle necessità specifiche delle madri recluse e dei loro figli, le agenzie governative non offrono l’assistenza necessaria, lasciando i bambini alla loro sorte. Tutto questo fa sì che l’adattamento al carcere e la detenzione delle donne che sono madri comportino una maggiore sofferenza, supplemento di pena non considerato né calcolato dal legislatore o dai tribunali.

Come l’Europa intende  affrontare il tema della maternità in carcere

L’Europa ha emesso una risoluzione dal titolo “Resolution on socio-labour reinsertion of female ex prisoners. Tra gli elementi più importanti vengono indicati:

•    La detenzione per le donne deve essere considerarta come ultima
•    E’ necessario promuovere misure alternative e sostitutive alla detenzione in particolare per donne con bambini
•    E’ necessario favorire i regimi detentivi aperti  per le donne
•    Considerato il basso numero delle donne in prigione e la loro scarsa pericolosità sociale sarebbe meglio non imprigionarle nelle sezione di alta sicurezza
•    In ogni prigione deve esserci personale specializzato in detenzione femminile e reinserimento femminile ;
•    Ogni stato membro deve elaborare specifici programmi all’interno delle prigioni con un forte supporto terapeutico, sociale ed economico per donne che hanno subito violenza
•    In ogni prigione deve essere organizzato un servizio di guida e sviluppo specializzato nel lavoro femminile
•    Ogni stato membro deve organizzare corsi di preparazione per le detenute in liberazione
•    Le amministrazione penitenziarie nazionali devono organizzare campagne di informazione e sensibilizzazione sui diritti delle donne ex detenute e promuovere immagini non stigmatizzate delle donne ex detenute, straniere o coinvolte in uso di stupefacenti, al dine di non consentire allarmi superficiali di paura che favoriscano una domanda di restrizione penale, per fornire corrette e complete informazioni sulle misure alternative di detenzione
•    Ogni stato membro dovrebbe promuovere ricerche studi e riflessioni sui bisogni specifici delle donne detenute
•    Ogni stato membro dovrebbe favorire e fornire risorse per attività in prorpio di donne ex detenute.

In Italia
Le donne condannate a pene detentive con figli minori non saranno più detenute in carcere fin quando il bambino non avrà compiuto il sesto anno di età (nel regime vigente il limite è di 3 anni di età), se non nella ipotesi in cui vi siano “esigenze di eccezionale rilevanza” (in tal caso la detenzione sarà disposta presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri – c.d. ICAM).
Così dispone la Legge 21 aprile 2011, n. 62 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale 5 maggio 2011, n. 103) recante “Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”.
Le norme previste saranno applicabili anche ai padri, nel caso in cui la madre sia deceduta oppure assolutamente impossibilitata all’assistenza dei figli.
Le nuove regole scatteranno a partire dal primo gennaio 2014.
Nuove regole sono previste anche per quanto concerne il diritto di visita al minore infermo, anche non convivente da parte della madre detenuta o del padre.
Nella ipotesi di imminente pericolo di vita o anche nel caso di gravi condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza potrà concedere il permesso con provvedimento urgente alla detenuta o imputata (o al padre) per far visita al figlio malato, con modalità che devono tener conto (nel caso ad esempio di ricovero ospedaliero) della durata del ricovero e anche del decorso della patologia.
Nelle ipotesi assolutamente urgenti il permesso viene concesso dal direttore dell’istituto.
Viene, altresì, previsto il diritto della detenuta o imputata (o del padre) di essere autorizzata dal giudice all’assistenza del figlio minore durante visite specialistiche, con un provvedimento che dovrà essere rilasciato non oltre le 24 ore precedenti la data della visita.
Altra novità concerne gli arresti domiciliari delle condannate incinte (o madri di figli con età inferiore a 10 anni), in quanto con la normativa prevista dal disegno di legge in commento si prevede che le condanne, in tal caso, possano essere espiate fino a 4 anni presso una casa famiglia protetta.
Il Ministero della Giustizia dovrà definire, con apposito decreto, le caratteristiche tipologiche delle strutture.
Nel caso in cui non vi sia concreto pericolo di fuga o, comunque, di commissione di altri delitti, e vi sia, inoltre, la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, le detenute potranno espiare la pena nella propria abitazione o, in ogni caso, in altro luogo privato o luogo di cura dopo aver scontato almeno un terzo della pena o almeno 15 anni nel caso di condanna all’ergastolo.
(Altalex, 6 aprile 2011. Nota di Manuela Rinaldi)

LEGGE 21 aprile 2011, n. 62
Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. (11G0105)
(GU n. 103 del 5-5-2011)
La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Promulga
la seguente legge:
Art. 1 Misure cautelari
1. Il comma 4 dell’articolo 275 del codice di procedura penale e’ sostituito dal seguente: «4. Quando imputati siano donna incinta o madre di prole di eta’ non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non puo’ essere disposta ne’ mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Non puo’ essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputato sia persona che ha superato l’eta’ di settanta anni».
2. Al comma 1 dell’articolo 284 del codice di procedura penale sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta».
3. Dopo l’articolo 285 del codice di procedura penale e’ inserito il seguente: «Art. 285-bis. – (Custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri). – 1. Nelle ipotesi di cui all’articolo 275, comma 4, se la persona da sottoporre a custodia cautelare sia donna incinta o madre di prole di eta’ non superiore a sei anni, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, il giudice puo’ disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano».
4. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano a far data dalla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, e comunque a decorrere dal 1° gennaio 2014, fatta salva la possibilita’ di utilizzare i posti gia’ disponibili a legislazione vigente presso gli istituti a custodia attenuata.
Art. 2 Visite al minore infermo
1. Dopo l’articolo 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e’ inserito il seguente:
«Art. 21-ter. (Visite al minore infermo). – 1. In caso di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute del figlio minore, anche non convivente, la madre condannata, imputata o internata, ovvero il padre che versi nelle stesse condizioni della madre, sono autorizzati, con provvedimento del magistrato di sorveglianza o, in caso di assoluta urgenza, del direttore dell’istituto, a recarsi, con le cautele previste dal regolamento, a visitare l’infermo. In caso di ricovero ospedaliero, le modalita’ della visita sono disposte tenendo conto della durata del ricovero e del decorso della patologia. 2. La condannata, l’imputata o l’internata madre di un bambino di eta’ inferiore a dieci anni, anche se con lei non convivente, ovvero il padre condannato, imputato o internato, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, sono autorizzati, con provvedimento da rilasciarsi da parte del giudice competente non oltre le ventiquattro ore precedenti alla data della visita e con le modalita’ operative dallo stesso stabilite, ad assistere il figlio durante le visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute».
Art. 3 Detenzione domiciliare
1. All’a linea del comma 1 dell’articolo 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, dopo le parole: «o accoglienza» sono inserite le seguenti: «ovvero, nell’ipotesi di cui alla lettera a), in case famiglia protette».
2. All’articolo 47-quinquies della legge 26 luglio 1975, n. 354, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1 sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, secondo le modalita’ di cui al comma 1-bis»; b) dopo il comma 1 e’ inserito il seguente: «1-bis. Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis, l’espiazione di almeno un terzo della pena o di almeno quindici anni, prevista dal comma 1 del presente articolo, puo’ avvenire presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli. In caso di impossibilita’ di espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa puo’ essere espiata nelle case famiglia protette, ove istituite».

Art. 4 Individuazione delle case famiglia protette
1. Con decreto del Ministro della giustizia, da adottare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, d’intesa con la Conferenza Stato-citta’ ed autonomie locali, sono determinate le caratteristiche tipologiche delle case famiglia protette previste dall’articolo 284 del codice di procedura penale e dagli articoli 47-ter e 47-quinquies della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati, rispettivamente, dagli articoli 1, comma 2, e 3 della presente legge.
2. Il Ministro della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, puo’ stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette.
Art. 5 Copertura finanziaria
1. Agli oneri derivanti dalla realizzazione di istituti di custodia attenuata di cui all’articolo 285-bis del codice di procedura penale, introdotto dall’articolo 1, comma 3, della presente legge, pari a 11,7 milioni di euro, si provvede a valere sulle disponibilita’ di cui all’articolo 2, comma 219, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, compatibilmente con gli effetti stimati in termini di indebitamento netto.

La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara’ inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Data a Roma, addi’ 21 aprile 2011.

NAPOLITANO

Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Visto, il Guardasigilli: Alfano

In Argentina

In Argentina sono state individuate  linee di lavoro alternative alla detenzione come unica risposta punitiva dello Stato nei confronti delle donne che hanno violato la legge penale:
– per le donne, una prima alternativa alla detenzione è legata alla condizione di madri di bambini minori di età. Oltre al riconoscimento della gerarchia costituzionale di numerosi trattati internazionali sui diritti umani e l’approvazione della Legge N. 26.472, che include le donne incinte o madri di figli minori di cinque anni tra le condizioni per ottenere l’arresto domiciliare, come prassi si dovrebbe evitare l’uso della detenzione o sostituirlo, quando questo non è possibile, con gli arresti domiciliari.
– In secondo luogo, le istituzioni coinvolte in questa ricerca sostengono la proposta di una modifica legislativa e delle relative pratiche giudiziarie, che permetta di sospendere la reclusione carceraria quando si tratta di donne al primo arresto accusate di delitti non violenti, come nel caso del traffico di droghe su scala ridotta.
– Applicazione delle misure di permessi transitori e di semilibertà previste dalle normative-
Si è visto infatti i regimi previsti  non sono adeguati alle condanne brevi, che sono quelle applicate alla stragrande maggioranza delle donne recluse, poiché le condanne sono concentrate nelle prime fasi del procedimento. Questo si traduce soprattutto nel fatto che le donne non hanno accesso ai permessi transitori o al regime di semilibertà.
Queste sono solo alcune delle proposte tese a produrre una drastica riduzione della quantità di donne detenute nell’ambito del Servizio Penitenziario Federale, così come la regolazione della detenzione allo scopo di ridurre l’enorme danno sociale prodotto dalla detenzione femminile, che non ha alcuna proporzione con il danno sociale prodotto dai delitti che vengono imputati.

In Messico
Detenute in carceri disumane, insieme ai loro figli di Patricia Briseno *
OAXACA, Messico, 4 settembre 2011 (IPS) – María S. adagia il figlio neonato sulla fredda lastra di cemento della sua cella nel penitenziario centrale della città di Santa María Ixcotel, sud-ovest del Messico.
Avvolto soltanto in una piccola coperta sottile, il bambino comincia a piangere. María S. (che chiede di mantenere l’anonimato) lo conforta e lo sdraia sul pavimento, mentre le altre nove detenute con cui condivide uno spazio di 20 metri quadrati la osservano.
Arrestata con l’accusa di spaccio di droga, la diciannovenne Maria S., della comunità indigena zapoteca, è una delle 234 detenute attualmente rinchiuse nelle 14 sovraffollate prigioni dislocate in tutto lo Stato di Oaxaca.
Abbandonata dalla sua famiglia, lei è solo una delle tante donne che vive nelle terribili condizioni dei penitenziari di Oaxaca.
L’anello più debole
Secondo i dati del Dipartimento di pubblica sicurezza (SSP in inglese) a Oaxaca, uno degli Stati più poveri del Messico, le donne rappresentano il sei per cento della popolazione carceraria del Paese.
Tra le 234 detenute ci sono donne ancora in attesa di giudizio e altre già condannate.
Se il carcere femminile non è disponibile nella giurisdizione in cui sono state incriminate, le donne vengono inviate nei reparti femminili di uno dei 14 penitenziari di Stato.
Le donne sono per lo più povere e la maggior parte di loro sono madri sole con figli a carico con meno di cinque anni – età in cui è necessario rinunciare alla custodia e affidarli a un parente o a un tutore.
Le detenute devono gestire da soli i loro figli, perché non ricevono assistenza dalle autorità carcerarie né cibi adatti ai bambini.
Alcune delle donne sono state arrestate per piccoli traffici di droga, altre per omicidio.
Ci sono 29 donne indigene, per lo più zapoteche originarie della catena montuosa meridionale, ma ci sono anche donne dal Mixe, mixteche, Triqui e altre popolazioni indigene.
La maggior parte di queste sono state spinte alla criminalità dalla terribile situazione economica. Alcune sono in prigione dopo essersi dichiarate colpevoli, ma altre sono ancora impantanate nelle procedure giudiziarie e in attesa del processo.
La povertà non lascia molte altre possibilità a queste donne: patire la fame o unirsi al traffico di stupefacenti. Così fanno la loro scelta di essere “trasportatrici di droga”. Sono l’anello più debole, dice il sociologo Concepción Núñez Miranda, l’ingranaggio più vulnerabile nella macchina di impunità che sostiene il commercio della droga.
Secondo Núñez Miranda, autore del libro intitolato “Traffico di droga, povertà, giustizia e diritti umani: Donne indigene in prigione per crimini contro la salute”, finché il Messico non affronterà il problema della povertà estrema, sempre più persone continueranno a migrare a nord e negli Stati Uniti e saranno facile preda dei cartelli della droga.
“Abbiamo bisogno di dare nuovo impulso alla lotta al narcotraffico in Messico, finora poco efficace, e convogliare le risorse sulla sanità, istruzione, occupazione e sulla riduzione della povertà strutturale che è la causa di arresti ingiusti di tante donne”.
Núñez Miranda, che nel 2006 ha ricevuto una menzione d’onore nel concorso Sor Juana Inés de la Cruz dall’Istituto Nazionale delle Donne (Inmujeres), dice che le donne di Oaxaca “sono sole”.
“I loro partner sono emigrati e sono state abbandonate dalle loro famiglie che non possono permettersi il costo del viaggio verso le città dove si trovano le detenute e non sono disposte a subire le umilianti perquisizioni cui sono soggette i visitatori delle carceri”.
Un esperto sostiene che un approccio di genere sia necessario per proteggere i diritti delle detenute.
“L’approccio di genere in un carcere vuol dire essere consapevoli che l’impatto sulle donne è diverso (rispetto a quello sugli uomini) e che, di conseguenza, non può esserci soltanto un approccio quantitativo”.
Particolarmente vulnerabili
Secondo Emmanuel Ruiz Castillo, sottosegretario alla Prevenzione, Criminalità e Reintegrazione sociale, il settantadue per cento delle detenute non sono state ancora processate né condannate.
A causa del sovraffollamento delle carceri molte di queste donne si trovano a condividere celle con detenute già condannate.
Attualmente ci sono sette donne in gravidanza che saranno trasferite all’Ospedale civile di Oaxaca non appena cominceranno ad avere le contrazioni.
Tenere i bambini in cella con le loro madri significa esporli quotidianamente ai disagi subiti dalle donne a causa del sovraffollamento delle carceri.
Il sottosegretario spiega che il suo dipartimento spende 8,6 pesos (70 centesimi di dollaro) a persona per dare da mangiare ai detenuti che hanno commesso reati a livello statale, e 50 pesos (quattro dollari) per i reati federali. © IPS
*L’articolo è apparso sull’agenzia messicana Comunicación e Información de la Mujer AC (CIMAC).(FINE/2011

Appendice
Dal carcere Numero 5 di San Cristobal de Las Casas, Chiapas, Messico
10 aprile 2011
Compagni e compagne delle differenti associazioni che oggi siete riuniti in questo incontro contro la tortura nelle carceri, buongiorno o buonasera a tutti e tutte voi. Vi manda un saluto la umile persona che sono io, e che la benedizione di Dio sia con voi, oggi e sempre.
Prima di tutto vi ringrazio per lo spazio che mi state dando. Oggi, per la prima volta, voglio raccontare con la  mia voce quello che ho vissuto e sto vivendo in questi 4 anni di carcere.
Il mio nome è Rosa López Díaz e sono un’indigena di lingua tzotzil, nata in una famiglia di umili origini, con poche risorse. Mi hanno arrestata il giorno 10 maggio del 2007 insieme a mio marito. Ci hanno accusato di un delitto che non abbiamo commesso. Ho sofferto trattamenti inumani come le torture fisiche, le torture psicologiche, minacce di morte. E’ stata la cosa più triste della mia vita. Come donna mai potrò scordare i volti delle persone che mi hanno picchiata senza un motivo, uomini e donne che dicono di avere un’autorità, ma non si toccano mai il cuore e si dedicano solamente a violare i diritti umani e a imputare delitti alle persone che non danno loro denaro. E fabbricano  i delitti di cui ci accusano e ci rinchiudono in carcere perchè non conosciamo i nostri diritti. E siamo calpestati, ignorati e privati dei nostri diritti come esseri umani.  Chiedo solo perdono a Dio, perchè un giorno possa curare le ferite che porto dentro e fuori. Quello che è il dolore  più grande della mia vita è che io mentre mi torturavano ero incinta di 4 mesi e dopo 5 mesi ho dato alla luce un bambino che si chiama Nataniel López López che è nato malato, con una paralisi cerebrale e deformato in volto. Non può muovere il suo corpo, nulla. I dottori hanno detto a mia madre che il bambino è nato malato per le torture che ho ricevuto quando mi hanno arrestato.
Oggi continuo a chiedere misericordia a Dio perchè mio figlio possa ricevere una cura adecuata alla sua malattia.  Ho toccato varie porte, ma nessuno mi ha fatto caso e oggi chiedo a Dio che tocchi il vostro cuore, perchè un giorno,  insieme, mi possiate aiutare a superare questo dolore che mi trascino dentro giorno dopo giorno sola. Ma non ce la faccio più, ho bisogno di tutti voi, compagne e compagni, perché  insieme dobbiamo distruggere il mal governo che gestisce i nostri paesi. Ci meritiamo di essere trattati con dignità, ci meritiamo uguaglianza, pace, giustizia, democrazia. Perchè in un mondo di bambini, entrano molti mondi!
Compagni e compagne non perdetevi d’animo, non vi lasciate turbare. Bisogna continuare ad andare avanti senza guardarci  indietro. Dobbiamo perseverare per vincere. E animo in tutte le vostre attività.
Tutti quelli che sono presenti oggi non mi conoscono, però sento comunque che siamo una grande famiglia unita, perché dove siete voi, ci sono io e dove sono io, ci siete voi. Vi porto nel mio cuore oggi e sempre, in questo incontro  indimenticabile vi saluto.
> Dio benedica ognuno di voi e le vostre famiglie.
> A presto.Rosa López Díaz
>
RISPOSTA DELLE MADRI PER ROMA CITTA’ APERTA
> Roma 20 aprile 2011
Cara Rosa,  un poeta italiano ha scritto che la pancia di una donna è una culla, che una donna non è il cielo, ma terra che non vuole la guerra, e se pensiamo a una donna pensiamo a tutta l’umanità.
Questo ci è venuto in mente quando abbiamo letto la tua lettera. Solo una donna poteva scrivere cose così semplici e profonde insieme, solo una donna parlando di sé ha  parlato a tutti, solo una donna poteva parlare di un figlio con la struggente commozione con cui ne hai parlato tu.
Noi, donne e madri italiane, siamo state profondamente colpite dalle parole che ci hai scritto. Sappiamo che non c’è futuro per i nostri popoli se non si parte dalla difesa delle donne nella società.
Parità e dignità vuol dire dare a tutte le Rose del mondo la possibilità vera di veder crescere i propri figli, di poterli svegliare ogni mattina, di accompagnarli a scuola. Vuol dire permettere ai bambini di essere bambini e vivere la loro infanzia serenamente. ‘Prima le donne e i bambini’ non può essere una frase priva di senso ma un impegno fondante per uomini e governi.

Intervista a Franca Salerno, militante dei Nuclei armati proletari, arrestata nel 1975 e condannata dopo un tentativo di evasione a 18 anni per banda armata.
Al processo, a quanti anni ti hanno condannata? “A 18, per banda armata”.
Sapevi di essere incinta al momento dell’arresto? “Sì, avevo questo bambino in pancia e volevo salvaguardare la sua vita. Antonio era morto, Pia era stata portata via con l’autoambulanza ferita, io ero sul selciato e gridavo: “Sono incinta”, ma da ogni autocivetta uscivano uomini e picchiavano. Sino a quando è arrivato anche per me il momento di andare in ospedale”.
Cosa vuol dire fare un figlio in carcere? “Guarda che io il figlio l’ho fatto fuori, in carcere l’ho partorito. Ma non mi sono sentita mamma da subito, all’inizio mi vergognavo. Quasi che il mio essere gravida fosse un tradimento alla rivoluzione”.
Ed è rimasto con te in carcere? “Sino ai tre anni andava e veniva, perché in carcere i bambini non stanno bene. E poi ho fatto molto carcere da sola, come a Nuoro, dove in sezione c’eravamo solo io e lui. Forse dalle lettere avevano capito che vivevo la maternità in modo confittuale e mi hanno messo alla prova”.
Come si chiama? “Antonio”.
Poi cosa è successo? “Compiuti i tre anni, i bambini in carcere non ci possono più stare. È stato un grosso dolore, ma esistevano i compagni e le compagne. E lui esisteva, esisteva come cosa viva, non solo come perdita. Poi ci sono stati le carceri speciali, i vetri divisori nella sala colloquio che per anni ci hanno impedito di toccarci, e tutte le altre difficoltà che “loro” mettevano in mezzo. Ma a me non fregava niente. Mio figlio esiste, mi dicevo, e anche se va via troverò un modo per costruirci qualcosa assieme, per crescerci assieme”.
Chi lo ha tenuto? “Mia madre, mia sorella, l’altra nonna”.
Lui ti ha mai chiesto perché stavi in carcere? “Si, aveva cinque anni e voleva dare risposte alla sua vita di bambino nato dietro le sbarre. Potevo spiegargli la rivoluzione? E poi non mi piace la retorica gloriosa. Così gli ho detto: la mamma ha rubato. Poi, piano piano, ho cercato di spiegare. Ma il racconto vero dei percorsi che mi avevano portato in carcere c’è stato quando sono uscita e lui aveva 16 anni”.

Da “Donne ai tempi dell’oscurità- Voci di detenute politiche  nell’Argentina della dittatura militare” di Norma Victoria Berti
La maternità
Nidia “ Fui molto felice quando in carcere ebbi la certezza d’essere incinta. Vissi il tempo della gravidanza  con tranquillità, in condizioni fisiche e psicologiche di serenità ed equilibrio. Sentire mio figlio che cresceva giorno dopo giorno era un sfida alla vita che ci stavano negando. Mio figlio era una vita che stava nascendo con forza contro ogni previsione, in un luogo concepito per la non-vita, per frenare la continuazione della vita. Sapevo che sarebbero passati molti anni prima che potessi stare con lui dopo la sua nascita però la certezza della maternità mi dava una proiezione differente, mio figlio sarebbe nato libero e io, un giorno l’avrei raggiunto fuori dal carcere dove lui m’avrebbe aspettata”.
Nidia”Quando mi tolsero il bebè sentii una lacerazione quasi fisica. Mi ero preparata psicologicamente per mesi a questo momento, ma non potei evitare un doloroso impatto emotivo. Credo di non aver neppure pianto per lo stordimento e l’alienazione che il trauma mi provocò , o forse, per non spalancare le porte allo sconforto che senza dubbio mi avrebbe condotta alla depressione più profonda. Era necessario superare questo sentimento e impedirgli di diventare ossessivo e permanente, pensare ad altro…..”
Nonostante ne fosse noto il destino, la separazione dai figli fu sempre un’esperienza dolorosa, ma immaginare la vita dei figli fuori dal carcere fu anche un sollievo , almeno per quelle madri che avevano la certezza d’aver affidato i piccoli alle loro famiglie.
Il regime carcerario del penitenziario di Villa Devoto offrì alle detenute, mesi più tardi, (siamo nel 1977), la possibilità di rivedere sia i figli nati dal carcere che quelli, sempre assai piccoli, dai quali erano state separate al momento dell’arresto.
Estela” I bambini erano un altro problema. Dopo aver sopportato lunghi viaggi , code interminabili, aver subito la perquisizione erano introdotti in un ambiente lugubre, in corridoi pieni di cancelli e di gente in uniforme che gridava ordini, essi arrivavano stanchi e storditi. I più piccoli erano disorientati, non capivano perché dovevano avvicinare la bocca al microfono per poter parlare con la mamma…Era duro incontrarsi con i bambini attraverso un vetro. Alcuni chiedevano se anche la mamma avesse un corpo e le gambe .Molti disegni infantili dell’epoca testimoniano dell’iniquità di queste modalità di incontro: la madri sono raffigurate solamente con un volto disegnato in un riquadro”
La cura dei bambini, affidati soprattutto ai nonni, fu anch’essa fonte di litigi e di conflitti di diversa natura, né mancarono tensioni per stabilire che dovesse avere cura dei piccoli  e come aver cura di loro.
Estela “Un problema fu la separazione dei bambini: uno l’allevò mia madre e l’altro mia zia. Io protestavo, imploravo, insistevo perché i bambini restassero insieme, ma non ottenni nulla. Mi sentivo impotente perché non potevo minimamente influire sulle decisioni che riguardavano i miei figli:”
Per le madri , una volta rimesse in libertà, il compito essenziale e delicatissimo sarà quello di recuperare la relazione con i loro figli cresciuti lontani da loro e che, praticamente , non le conoscevano

Pubblicato in Generale | Commenti disabilitati su Madri e bambini dietro le sbarre

Prima le donne e i bambini. Maternità e infanzie negate dietro le sbarre

Museo storico della Liberazione
con la collaborazione delle Madri per Roma Città Aperta

Prima le donne e i bambini
Maternità e infanzie negate dietro le sbarre
Testimonianze, immagini interventi per rifletterne insieme

Le donne rinchiuse in carcere attualmente in Italia sono circa 2600, il 4% dei detenuti. Di queste poco più di 60 sono internate insieme ai loro figli che ad oggi risultano essere 70 , con eta’ inferiore ai 3 anni. Le detenute in stato di gravidanza oscillano intorno alle 20-30 unita’. In Italia sei sono le carceri interamente femminili e sedici gli asili nido funzionanti.
Quasi inesistenti sono le considerazioni di quanto la vita carceraria influisca sulla maternità, sia che i figli siano dentro il carcere, sia che siano fuori; scarsa è l’attenzione di istituzioni e società ai motivi stessi, spesso legati alla specificità femminile, che portano le donne in carcere, scarsa è l’attenzione all’impatto che il carcere ha sulle donne e sulla loro vita.
Una maternità interrotta, così come interrotta è l’infanzia di quei bambini che tra 0 e i 3 anni vivono reclusi nel carcere, così come segnata per sempre la vita dei figli fuori con le madri in carcere. Questi figli, dietro e fuori le sbarre, restano, per la società e le istituzioni, invisibili come le loro madri.
Oggi è ancora difficile parlare di maternità in detenzione. Le donne detenute vengono considerate cattive madri e incapaci di portare avanti il proprio ruolo materno e così sulle loro maternità cala il silenzio.
Noi vogliamo rompere questo silenzio raccontando le loro storie, riflettendo sulle loro paure, sui loro bisogni, su quello che si fa e si deve ancora fare affinchè nessuna madre e nessun bambino siano più dietro le sbarre.

Proiezione del video “Il carcere sotto i tre anni di vita” di Luisa Betti
Partecipano: Associazione A Roma insieme, Luisa Betti – Il manifesto -, Grupo de trabajo no estamos todos
Presiede : Antonio Parisella
Sabato 14 Gennaio 2012 ore 10
Museo Storico della Liberazione – Via Tasso, 145
www.museoliberazione.it
info@museoliberazione.it
c/c 51520005 Intestato a: Museo storico della Liberazione, via Tasso 145 – 00185 Roma
Causale: CONTRIBUTO DI SOLIDARIETA’
Per bonifici: IBAN: IT 39 T 07601 03200 000051520005
Per bonifici USA: BIC/SWIFT: BPP II T RR XXX
madrixromacittaperta@libero.it
http://madrixromacittaperta.noblogs.org/

Pubblicato in Generale | Commenti disabilitati su Prima le donne e i bambini. Maternità e infanzie negate dietro le sbarre

Lettera a Rosa, madre in carcere in Messico

La lettera che segue è scritta da una compagna indigena di poco più di vent’anni, imprigionata ingiustamente in un penitenziaro del Chiapas. Come lei, moltissimi uomini e donne indigene riempiono le celle sovraffollate di queste carceri. Per la maggior parte accusati di delitti che non hanno commesso, vengono messi in prigione solo perchè il potere ha bisogno di un colpevole e gli indigeni, che spesso non parlano lo spagnolo, sono le vittime più semplici di questo sistema spietato e ferocemente razzista. Rosa, come moltissimi altri e altre, ha subito pesanti torture al momento dell’arresto, con lo scopo di fargli firmare una falsa confessione. Picchiata, umiliata, sfregiata nel corpo e nella mente, la testa infilata in un sacchetto di plastica, poi sott’acqua fino a toglierle l’aria. Ma Rosa è una prigioniera che lotta, è una donna che ora ha preso coscienza dei propri diritti e che si è organizzata insieme a altri prigionieri del carcere in un collettivo “Los solidarios de la Voz del Amate” per denunciare gli abusi subiti e per strappare ai suoi aguzzini e carcerieri la sua preziosa libertà. L’abbiamo conosciuta così e così si racconta in questa lettera. Per noi è un onore lottare al suo fianco e al fianco del collettivo la Voz Del Amate, aderente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’EZLN e partecipante all’Altra Campagna in maniera attiva nelle carceri del Chiapas dal 2006.

Dal carcere Numero 5 di San Cristobal de Las Casas, Chiapas, Messico – 10 aprile 2011

Compagni e compagne delle differenti associazioni che oggi siete riuniti in questo incontro contro la turtura nelle carceri, buongiorno o buonasera a tutti e tutte voi. Vi manda un saluto la umile persona che sono io, e che la benedizione di Dio sia con voi, oggi e sempre.

Prima di tutto vi ringrazio per lo spazio che mi state dando. Oggi, per la prima volta, voglio raccontare con la mia voce quello che ho vissuto e sto vivendo in questi 4 anni di carcere.

Il mio nome è Rosa López Díaz e sono un’indigena di lingua tzotzil, nata in una famiglia di umili origini, con poche risorse. Mi hanno arrestata il giorno 10 maggio del 2007 insieme a mio marito. Ci hanno accusato di un delitto che non abbiamo commesso. Ho sofferto trattamenti inumani come le torture fisiche, le torture psicologiche, minacce di morte. E’ stata la cosa più triste della mia vita. Come donna mai potrò scordare i volti delle persone che mi hanno picchiata senza un motivo, uomini e donne che dicono di avere un’autorità, ma non si toccano mai il cuore e si dedicano solamente a violare i diritti umani e a imputare delitti alle persone che non danno loro denaro. E fabbricano i delitti di cui ci accusano e ci rinchiudono in carcere perchè non conosciamo i nostri diritti. E siamo calpestati, ignorati e privati dei nostri diritti come esseri umani.

Chiedo solo perdono a Dio, perchè un giorno possa curare le ferite che porto dentro e fuori. Quello che è il dolore più grande della mia vita è che io mentre mi torturavano ero incinta di 4 mesi e dopo 5 mesi ho dato alla luce un bambino che si chiama Nataniel López López che è nato malato, con una paralisi cerebrale e deformato in volto. Non può muovere il suo corpo, nulla. I dottori hanno detto a mia madre che il bambino è nato malato per le torture che ho ricevuto quando mi hanno arrestato.

Oggi continuo a chiedere misericordia a Dio perchè mio figlio possa ricevere una cura adecuata alla sua malattia. Ho toccato varie porte, ma nessuno mi ha fatto caso e oggi chiedo a Dio che tocchi il vostro cuore, perchè un giorno, insieme, mi possiate aiutare a superare questo dolore che mi trascino dentro giorno dopo giorno sola. Ma non ce la faccio più, ho bisogno di tutti voi, compagne e compagni, perchè insieme dobbiamo distruggere il mal governo che gestisce i nostri paesi. Ci meritiamo di essere trattati con dignità, ci meritiamo uguaglianza, pace, giustizia, democrazia. Perchè in un mondo di bambini, entrano molti mondi!

Compagni e compagne non perdetevi d’animo, non vi lasciate turbare. Bisogna continuare ad andare avanti senza guardarci indietro. Dobbiamo perseverare per vincere. E animo in tutte le vostre attività.

Tutti quelli che sono presenti oggi non mi conoscono, però sento comunque che siamo una grande famiglia unita, perchè dove siete voi, ci sono io e dove sono io, ci siete voi. Vi porto nel mio cuore oggi e sempre, in questo incontro indimenticabile vi saluto.

Dio benedica ognuno di voi e le vostre famiglie. A presto.

Rosa López Díaz

__________________________________________________________________

 

Cara Rosa,
un poeta italiano ha scritto che la pancia di una donna è una culla, che una donna non è il cielo, ma terra che non vuole la guerra, e se pensiamo a una donna pensiamo a tutta l’umanità.
Questo ci è venuto in mente quando abbiamo letto la tua lettera. Solo una donna poteva scrivere cose così semplici e profonde insieme, solo una donna parlando di sé ha parlato a tutti, solo una donna poteva parlare di un figlio con la struggente commozione con cui ne hai parlato tu.
Noi, donne e madri italiane, siamo state profondamente colpite dalle parole che ci hai scritto.
Sappiamo che non c’è futuro per i nostri popoli se non si parte dalla difesa delle donne nella società.
Parità e dignità vuol dire dare a tutte le Rose del mondo la possibilità vera di veder crescere i propri figli, di poterli svegliare ogni mattina, di accompagnarli a scuola. Vuol dire permettere ai bambini di essere bambini e vivere la loro infanzia serenamente. ‘Prima le donne e i bambini’ non può essere una frase priva di senso ma un impegno fondante per uomini e governi.
Accade anche nel nostro Paese che lo Stato possa sottrarre un figlio e restituirlo morto: negando ogni possibilità di avvicinarlo, di esercitare il diritto di ogni madre di constatare la salute e le condizioni del proprio figlio, anche di chi si trovi in carcere.
Accade anche nel nostro Paese che lo Stato “sequestri” le persone , attraverso i fermi: sospendendo ogni diritto umano e costituzionale di comunicazione con i legali e le famiglie.
Accade nel nostro paese che l’immigrazione, le mobilitazioni sociali , la diversità e i comportamenti non conformi a regole non condivise stiano riempiendo le carceri
Cresce la rabbia per tutto questo ma anche la speranza. La speranza che il vento di libertà arrivi ovunque. Anche in Italia, dove si dice che viviamo tutti in democrazia.
Democrazia è una parola ambigua come libertà e forse come felicità. Libertà per noi non è una idea, non rincorriamo la sua inesistente assolutezza. Piuttosto la libertà è qualcosa che si fa. Democrazia è un concetto politico che per esser vero chiede una economia giusta e una società felice. Altrimenti non è democrazia.
In ricordo di Renato, accoltellato per odio e intolleranza nel 2006, le Madri per roma città aperta si sono da allora mobilitate per la difesa delle maternità negate che costituiscono la negazione dei diritti di ogni individuo.
Come le madri argentine di Plaza de Majo, le madri cinesi di Piazza Tien a men e le madri iraniane hanno chiesto giustizia e verità per i loro figli, le Madri per Roma Città Aperta vogliono sostenere e dar voce ad ogni madre che voglia rivendicare la propria dignità e i diritti dei loro figli.
Ci rivolgiamo alle donne e agli uomini che ancora credono nel valore del diritto e della giustizia e li sollecitiamo affinchè uniscano le loro voci alle nostre per richiamare l´opinione pubblica di fronte alle proprie responsabilità.

Madri per romacittaperta

Pubblicato in General | Commenti disabilitati su Lettera a Rosa, madre in carcere in Messico

L e donne terre-mutate – L’Aquila 7-8 maggio 2011

Uno sguardo diverso. Lo sguardo delle donne. L’Aquila: tutti l’hanno guardata, ma chi l’ha vista veramente? Il Comitato “Donne terre-mutate”lancai un incontro nazionale all’Aquila per il 7 e l’8 maggio 2011. Per portare le donne di tutta l’Italia a vedere l’Aquila come è. A sentirne gli odori a toccare le spaccature e a stringere mani. Per portarle a visitare la “zona rossa” ancora militarizzata e ad entrare nelle C.A.S.E dove (non) si vive bene, a camminare nei quartieri vuoti e abbandonati, a passeggiare nel centro dopo le undici di sera (prima che chiudano i cancelli!).

Vogliamo portarvi nei luoghi che la televisione non  ha mai fatto vedere.

Un pensiero diverso. Il pensiero delle donne. Dal 6 Aprile 2009, a L’Aquila le donne riflettono, discutono, lavorano e progettano, mettono insieme competenze e talenti. Sono le donne delle associazioni , dei luoghi di lavoro, della scuola, dell’arte. Sono le donne che ricostruiscono quel che è permesso ricostruire in un modo differente dagli uomini.

Vogliamo confrontarci con altre donne d’Italia, con altri talenti e con altre competenze.

Un altra città. La città delle donne. Le donne a L’Aquila ri-tessono la vita quotidiana frammentata. Vedono il tempo bruciarsi nelle distanza fra il centro storico ancora chiuso e i satelliti tutti intorno, il degrado di case, libri,  mobili, suppellettili e luoghi di incontro un tempo agevoli. Ma dal caos nascono anche occasioni che le aquilane vogliono condividere con  donne di tutta Italia. Un momento di gioia, una festosa trama di relazion: semi di ricostruzione e di rinascita da gettare nella  terra tutte insieme.

SOPRATTUTTO ABBIAMO UN SOGNO:

RICOSTRUIRE NELLA NUOVA CITTA UN LUOGO DELLE DONNE

BENVENGANO LE DONNE A MAGGIO

MANI-FESTIAMO SIAMO TUTTE AQUILANE

Comitato promotore  “Donne terre-mutate per l’incontro nazionale del 7 e 8

maggio 2011″

Biblioteca Donne Melusine-L’Aquila, Centro Antiviolena per le donne-L’Aquila, Donne in Nero -L’Aquila, Leggendaria Libri Letture Linguaggi

Leggi le adesioni

http://www.laquiladonne.com/adesioni/

Pubblicato in Generale | Commenti disabilitati su L e donne terre-mutate – L’Aquila 7-8 maggio 2011

Memorie di Aprile al Museo della Liberazione a Via Tasso

Memorie di aprile

nonstop di letture: lettere, documenti,testimonianze nel Museo storico della Liberazione di Via Tasso

Resistenza (Roma, Italia, Europa), Antifascismo del Ventennio, Deportazione e internamento, Carceraria

domenica 17 aprile 2011

CARCERARIA


Ciro Menotti, affiliato alla Carboneria, giustiziato a Modena nel 1831. Menotti passa l’ultima notte con un sacerdote a cui consegna l’ultima lettera per la moglie. La lettera fu subito confiscata e la vedova la leggerà solo nel 1848.

Carissima moglie,

la tua virtù e la tua religione siano teco, e ti assistano nel ricevere che farai questo foglio. Sono le ultime parole dell’infelice tuo Ciro. Egli ti rivedrà in più beato soggiorno. Vivi ai figli e fa loro anche da padre; ne hai tutti i requisiti. Il supremo amoroso comando che impongo al tuo cuore è quello di non abbandonarti al dolore.

Non resterai che orbata di un corpo che pure doveva soggiacere al suo fine: l’anima mia sarà teco unita per tutta l’eternità. Pensa ai figli e in essi continua a vedere il loro genitore: e quando saranno adulti dà loro a conoscere quanto io amavo la patria. Io muoio col nome di tutti nel cuore e la mia Cecchina ne invade la miglior parte.

Dirti d’incamminare i figli sulla strada dell’onore e della virtù è dirti ciò che hai sempre fatto: ma te lo dico perché sappiano che tale era l’intenzione del padre; e così ubbidienti rispetteranno la sua memoria.

Do l’ultimo bacio ai figli: non oso individuarli perché troppo mi angustierei: tutti quattro, e i genitori, e l’ottima nonna, la cara sorella. Addio per sempre Cecchina. In quest’ultimo tremendo momento le cose di questo mondo non sono più per me. Sperava molto; il sovrano..ma non sono più di questo mondo. Addio con tutto il cuore, addio per sempre, ama il tuo Ciro.

________________________________________________________________________________

Andrea Vochieri, fece parte della Giovane Italia, fucilato nel 1833

Italiani, fratelli,

io muoio tranquillo, perché quantunque calunniato e tradito, seppi tacere per non compromettere alcuno dei tanti miei fratelli.

Io muoio tranquillo, perché non ho voluto riscattare dal tiranno piemontese la mia vita, come mi venne offerto, col tradimento e lo spergiuro.

Io muoio tranquillo, perché vero e costante figlio della Giovane Italia.

Infine io muoio, o Italiani, imprecando coll’estrema mia voce a tutti i despoti della terra e loro satelliti. Infiammatevi ad unirvi ed a sacrificare il vostro sangue per la libertà, indi pendenza e rigenerazione dell’infelice vostra patria.

________________________________________________________________________________

Lettera di Ezio Riboldi militante socialista ad un altro militante, entrambi  arrestati negli anni ’30 del 1900. Riboldi riporta quanto aveva saputo sullo strano suicidio in carcere dell’anarchico Gaetano Bresci,regicida. Bresci, condannato all’ergastolo, fu trovato morto nella sua cella il 22 maggio 1901.  Lettera pubblicata in Umanità Nova, 1964

Caro Borghi, Seniga mi dice di mandarti le notizie che so sulla morte di Bresci. Dal luglio al novembre 1930 fui assegnato alla casa cronici del penitenziario di Paliano (Ciociaria). Ero alla sezione 2 con circa venti ergastolani tra i quali il brigante Mone della provincia di Nuoro ed il brigante Calogero di Agrigento.

Erano in carcere da oltre 30 anni, arrivati prima di me, dopo circa 12 anni di segregazione cellulare a Santo Stefano. A questo reclusorio erano arrivati molti anni prima di Bresci, che essi poterono vedere quando passava per recarsi all’aria. Stava bene. Però un certo giorno le guardie gli fecero il santantonio. Ecco di che si tratta: sotto il pretesto di tentata ribellione, le guardie gettano sul disgraziato coperte e lenzuola e lo colpiscono con bastoni fino a farlo morire. Anche a Volterra dove fui in segregazione dal giugno ’28 al maggio ’36 sono avvenuti parecchi di questi tormenti. Il Bresci fu così finito e sepolto nell’isolotto in un posto mai precisato.

Il comandante del reclusorio fu promosso e le tre guardie premiate. Due altri ergastolani provenienti da Santo Stefano e da me interrogati, mi dissero che erano andati a Santo Stefano qualche tempo dopo ed avevano sentito da altri segregati più vecchi la conferma di questo episodio.

________________________________________________________________________________

Antonio Gramsci. Deputato, nel 1928 viene condannato a vent’anni, dal Tribunale Speciale Fascista per  attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe. Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare” disse il Pubblico Ministero. da Lettere dal carcere

Cara mamma,vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo,la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini (maggio 1928)

Cara Tatiana, sono da molto tempo, circa da un anno e mezzo, entrato in una fase della mia vita che, senza esagerazioni, posso definire catastrofica. Non riesco più a reagire al male fisico e sento che le forze mi vengono sempre più a mancare. D’altronde non voglio abbandonarmi alla corrente, cioè non voglio trascurare nulla che sia pure astrattamente possa offrire una possibilità di porre un termine a questo soffrire. Mi pare che se trascurassi qualche cosa, ciò, in un certo senso, equivarrebbe a un suicidio. Sono diventato pieno di contraddizioni, è vero, ma non fino al punto da non comprendere queste cose elementari.. (febbraio 1933)

Cara Tatiana, immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno. Prima del naufragio, come è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di diventare..naufrago, e quindi tanto meno pensava di essere condotto a commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per esempio di diventare antropofagi. Ognuno, se interrogato a freddo, avrebbe risposto che nell’alternativa di morire o di diventare cannibale avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finchè a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma in realtà si tratta delle stesse persone?

La  personalità si sdoppia: una parte osserva il processo, l’altra lo subisce, ma la parte osservatrice sente la precarietà della propria posizione, cioè non ci sarà più autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo individuo con modi di pensare diversi da quelli precedenti (marzo 1933)

________________________________________________________________________________

Lettera di Gerardo De Angelis , detenuto a Regina Coeli e portato a via Tasso, morto alle Fosse Ardeatine.

Notte tragica infinita piena di tormenti. Senti  che l’angoscia e la paura pendono il posto del tuo coraggio. Ti rimane solo la forza del tuo animo , dei tuoi pensieri. La luce sugli occhi e intorno il buio che dà i brividi. Solo l’alba può aiutarti se dovesse esserci un’altra notte come questa io no so se sarò capace di resistere. Un vecchio detto che viene dal lontano oriente ci dice: l’ora più buia è quella che precede l’alba.

Io mi auguro possa essere l’alba della libertà e della gloria, se nel caso disperato dovesse essere l’alba del sacrificio onore e gloria a voi che restate e un monito per gli altri.

Nulla vi lascio miei cari perché nulla ho da lasciarvi in compenso alle mie debolezze. Vi lascio un gran cuore che non ha conosciuto né odii né rancori, né inganni , né cattiverie. Ho voluto bene sempre a tutti e l’amore hanno regnato sovrani nella mia vita e per questo non ho nulla da rimproverarmi, così vorrei che fosse anche per voi, se non altro avrete ereditato qualcosa di me.

Vi stringo tutti in un unico grande abbraccio. Dino, Dino vostro. Marzo 1944

________________________________________________________________________________

Giulio Salierno, attivista dell’MSI a partire dalla fine degli anni Quaranta. Condannato per omicidio nel 1955, trascorse tredici anni in carcere, dove si avviò verso la strada di una nuova coscienza politica per arrivare alla abiura del fascismo e alla grazia concessagli nel 1968. Il tema centrale del suo pensiero si basa sulla pericolosità del sistema carcerario segregante rispetto alla vita sociale, che proprio per queste sue caratteristiche, può divenire esso stesso un volano di violenza e di produzione di un’umanità patologica

Da Autobiografia di un picchiatore fascista

La cella di punizione era stretta e lunga. Una gabbia di mattoni che prendeva aria da una finestrella di sbarre incrociate sul soffitto. Si dormiva sul pancaccio, una sola coperta. In un angolo il bugliolo. Un cancello di ferro e una porta di legno massiccio sbarravano l’uscita. La lampadina sempre accesa, il silenzio assoluto, l’assenza totale di comunicazione con l’esterno, l’impatto violento e terrificante con le modalità dell’istituzione facevano crollare le difese più solide. Il letto di contenzione o la camicia di forza ristabilivano l’equilibrio, facevano accettare prontamente le regole del gioco a chi si ribellava. Per chi insisteva a non capire, come quel mio compagno che urlava e dava testate al muro, avrebbero a momenti provveduto gli agenti e poi la traduzione in un manicomio criminale.

Mi avevano portato nel reparto-punizione, un piccolo edificio a cubo lontano dal corpo principale del carcere. Altri mi avevano seguito. Mi sentivo responsabile per ciò che poteva capitar loro e umiliato per non poter far nulla.

– Cosa fai ancora in piedi?

Grosso, sudato, la divisa scomposta, si capiva che l’agente di servizio al reparto-punizione aveva dovuto sostenere una lotta accanita per “lavorare” quel mio compagno a cui erano saltati i nervi. Forse stava cenando, era stato costretto a lasciare la gamella sul tavolino, a correre per far tacere il rompicoglioni, le cui urla arrivavano lontano. Chissà se il brigadiere gli avrebbe fatto rapporto. Erano delinquenti, non volevano obbedire agli ordini, che colpa ne aveva lui? Lo odiavano e lui li odiava. Quando era recluta, aveva cercato di capirli. Ne aveva ricavato solo guai e punizioni. L’unica soluzione era il bastone. Se fossero morti sarebbe stato meglio per tutti, anche per loro, avrebbero smesso di combinare solo danni.

–  Ehi, sei sordo?

Mi sdraiai sul pancaccio. Avrei potuto minacciarlo, tirare il bugliolo contro il cancello, le grida di prima mi avevano sconvolto. Sarebbe stato un errore, non si diventa aguzzini per vocazione. Questa guardia, che dopo aver pestato il mio compagno mi ordinava urlando di mettermi sul pancaccio, avrebbe potuto agire diversamente? Mal pagato, sottoposto a una dura disciplina e a turni di lavoro pesantissimi, con rischi continui per la sua stessa incolumità fisica, consapevole di condurre una vita grama e priva di ogni divertimento, manipolato dall’indottrinamento ricevuto, era inevitabile trasformasse il recluso nel capro espiatorio delle proprie frustrazioni.

Per questo agente l’alternativa era stata obbligata: entrare in carcere come guardia o come criminale. Comunque, sempre la prigione come destino. La violenza non poteva essere una risposta ai suoi bisogni. Per porlo di fronte a una scelta di fondo occorreva far leva sulle condizioni della sua vita. Ciò non significava ripudiare la violenza, anzi. Aveva ragione Sartre: “i segni della violenza solo la violenza può cancellarli” Dovevo finalizzare la violenza, renderla utile ai miei compagni, farne uno strumento politico. Anche il coraggio poteva puzzare, me n’ero accorto ripensando alle azioni che avevo compiuto fuori. Avevo creduto di battermi per l’Italia, lo avevo fatto invece per qualcun altro.

_______________________________________________________________________________

JEAN-PAUL SARTRE SULLA TORTURA introduzione al libro La Tortura di Henry Alleg, torturato nelle carceri algerine dai francesi nel 1955 durante la lotta per l’indipendenza:

Nel 1943, in via Lauriston, erano dei francesi a gridare d’angoscia e di dolore.
La Francia intera li udiva. L’esito della guerra non era certo, e non si voleva neppure pensare al futuro; ma una sola cosa ci pareva comunque impossibile: che si sarebbero fatti urlare altri uomini, un giorno, in nostro nome

Ma impossibile non è francese: nel 1958, ad Algeri, si tortura abitualmente, sistematicamente; tutti lo sanno, da Lacoste ai contadini dell’Aveyron. Nessuno ne parla, o quasi: fili di voce si estinguono, nel silenzio. La Francia non era più muta di oggi sotto l’occupazione; ma aveva almeno la scusa di essere imbavagliata. All’estero, il caso nostro è già giudicato: la Francia continua a degradarsi: dal ‘39 secondo alcuni, dal ‘18 secondo altri.
Io non credo però così facilmente alla degradazione di un popolo; credo ai suoi marasmi e alle sue ottusità. Durante la guerra, quando la radio inglese o la stampa clandestina ci parlavano dei massacri di Ouradour, guardavamo i soldati tedeschi che passeggiavano per le vie con aria innocua, e ci capitava di osservare tra noi: “Eppure sono uomini che ci rassomigliano: come possono fare quello che fanno?” Eravamo fieri di noi, perché riuscivamo a non capirli.

Oggi sappiamo che non c’è nulla da comprendere; tutto si è compiuto insensibilmente, con abbandoni impercettibili; quando abbiamo levato il capo, abbiamo visto nello specchio un volto sconosciuto, odioso: il nostro. Atterriti dallo stupore, i francesi scoprono questa evidenza terribile: se niente vale a proteggere una nazione contro se stessa -né il suo passato, né le sue fedeltà, né le sue proprie leggi,- se bastano quindici anni per cambiare le vittime in carnefici, allora chi decide è l’occasione; basta l’occasione a trasformare la vittima in carnefice: qualsiasi uomo, in qualsiasi momento.

………………………………………

Si è sparsa anche la voce che si pratica la tortura in certe prigioni civili del “territorio metropolitano”: non so se sia fondata, ma dev’essere stata raccolta anche dai poteri pubblici, visto che il procuratore, al processo di Ben Saddok, ha domandato solennemente all’accusato se avesse subito sevizie. Beninteso, la risposta era conosciuta in anticipo.
No, la tortura non è né civile né militare né specificatamente francese: è come una sifilide  che devasta l’intera epoca. All’est come all’ovest ci sono carnefici. Non è passato tanto tempo da quando Farkas torturava gli ungheresi. I polacchi non nascondono che la loro polizia , prima di Poznan, torturava anch’essa volentieri; e su ciò che accadeva in URSS al tempo di Stalin abbiamo la testimonianza irrecusabile del rapporto Krusciov. Ieri si “interrogavano” così, nelle prigioni di Nasser, degli uomini politici che poi sono stati, con qualche cicatrice, elevati a cariche eminenti. L’elenco potrebbe continuare. Oggi, comunque, è il momento di Cipro e dell’Algeria; e Hitler, insomma, non era che un precursore.
Sconfessata – a volte, del resto, senza molta energia – ma sistematicamente applicata dietro la facciata della legalità democratica, la tortura può definirsi un’istituzione semiclandestina. Ha forse le stesse cause dappertutto? No, probabilmente. E poi poco importa: qui non si tratta di giudicare il nostro tempo; si tratta di guardare in faccia le cose nostre per cercar di capire che cosa è successo a noi, a noi francesi. –

________________________________________________________________________________

Estela Robledo , Legata a settori del peronismo rivoluzionario, viene imprigionata subito dopo il golpe militare del 24 marzo 1976 assieme a suo marito, operaio alla fabbrica diautoveicoli Renault e militante sindacale. Al momento dell’arresto ha un figlio diun anno e mezzo ed è incinta di 6 mesi.

Mi toccò inaugurare il 2°piano, quello destinato alle persone detenute dal giorno del golpe militare. Erano delle celle singole, le porte erano di acciaio all’interno e fuori di legno, con un piccolo finestrino o spioncino che era stato tagliato perché quando il Vescovo della città lo aveva inaugurato disse che non era cristiano che la porta fosse tutta intera; il letto veniva incastrato nel muro, in basso, a modo di sarcofago, nella cella successiva veniva ricavato sempre come sarcofago, però nella parte alta; le finestre non si aprivano mai e non si usciva né all’interno, cioè nel corridoio, né all’esterno. Tutti i bisogni si facevano all’interno, una volta al giorno a turno, si puliva la cella, si faceva la doccia con acqua fredda e dovevi lavare gli abiti che avevi addosso in 20 minuti. Non esisteva contatto con l’esterno, non si aveva l’ora d’aria, non arrivavano lettere, non c’erano visite; qualche volta entrava un giudice: a noi toccò di essere una tra le prime cause da discutere. In quel carcere furono ammazzati, con la scusa di “intentare la fuga”, 29 compagni, li ammazzarono qualcuno fuori del carcere, altri all’interno, sia sparandogli, sia con il metodo del “staqueo” che vuol dire metterlo per terra, aprirgli tutti quattro gli arti e legarli ognuno a una corda e buttarli acqua cosi il corpo per il freddo si contorce e provoca dolori. I militari arrivavano in qualsiasi momento, soprattutto di notte, e subito ci mettevano a far degli esercizi militari; le donne incinte, che erano 6 o 7, le mettevano da un’altra parte a fare altri tipi di esercitazione. Argentina 1976

________________________________________________________________________________

Dai Capi di imputazione del processo per i fatti della caserma di Bolzaneto

A) avere tollerato e consentito (e conseguentemente avere omesso nella sua veste il controllo necessario ad impedire) che le persone ristrette presso il sito penitenziario provvisorio della caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a trattamento non conforme ad umanità, non rispettoso della dignità umana, quindi umiliante inumano e degradante

B) avere consentito, tollerato e non impedito, che le persone ristrette in Bolzaneto (in alcuni casi visibilmente ferite in conseguenza degli scontri di piazza) fossero costrette a subire trattamenti vessatori inumani e degradanti sia all’interno delle celle di pertinenza della Polizia Penitenziaria (ove le persone senza plausibile ragione e senza necessità legata alla detenzione erano obbligate a mantenere per lungo tempo posizioni umilianti inumane e disagevoli), sia in quelle custodite dalla Polizia di Stato (ove personale della Polizia Penitenziaria si introduceva arbitrariamente), sia nel corridoio durante gli spostamenti e l’accompagnamento ai bagni (durante i quali le persone offese venivano derise ingiuriate colpite e minacciate senza alcuna ragione da personale che stazionava nel corridoio disposto in modo da formare due ali ai lati dello stesso) sia infine nei bagni stessi

C) avere nella qualità sopraindicata consentito e tollerato (e comunque non avere impedito che) le persone ristrette presso la caserma di Bolzaneto subissero umiliazioni, offese e insulti in riferimento alle loro opinioni politiche (quali “zecche comuniste” “bastardi comunisti, “comunisti di merda” ora chiama Bertinotti “ “ te lo do io Che Guevara e Manu Chao”, “Che Guevara figlio di puttana”, “bombaroli”, “popolo di Seattle fate schifo” ed altre di analogo tenore), alla loro sfera e libertà sessuale, e alle loro credenze religiose e condizione sociale, (quali ebrei di merda, frocio di merda ed altre di analogo tenore), e fossero costretti ad ascoltare espressioni e motivi di ispirazione fascista contrariamente alla loro fede politica (quali ascolto obbligato del cellulare con suoneria costituita dal motivo “faccetta nera bella abissina”, ascolto della filastrocca “un due tre viva Pinochet quattro cinque sei a morte gli ebrei”, pronuncia da parte delle persone offese contro la propria volontà di espressioni quali “viva il duce”, “duce, duce” ed altre di analogo tenore), così sottoponendo le persone offese ad un trattamento offensivo della loro libertà morale, politica e religiosa (art. 1 commi 1 e 2 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo)

………… tollerava, consentiva e comunque non impediva che le persone ristrette in Bolzaneto (in alcuni casi visibilmente ferite in conseguenza degli scontri di piazza):

– fossero costrette, nelle CELLE di pertinenza della Polizia di Stato, senza plausibile ragione (e senza necessità legata alla detenzione) a rimanere per numerose ore in piedi, con il volto rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena, o seduti a terra ma con la faccia rivolta verso il muro, con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate, costituenti ulteriore privazione della libertà personale, senza poter mutare tale posizione;

– fossero costrette a subire, anche nelle celle, ripetutamente, percosse calci pugni insulti e minacce, anche nel caso in cui non riuscivano più per la fatica a mantenere la suddetta posizione nonché per farli desistere da ogni benché minimo tentativo – del tutto vano – di cercare posizioni meno disagevoli;

…………………

– fossero mantenute senza somministrazione di cibo, bevande e in generale dei pasti necessari in rapporto alla durata del periodo di permanenza presso la struttura (variabile, per la fase dall’ingresso nella caserma fino all’immatricolazione, da un periodo di circa due ore fino a 15 ore circa ), e di tutti i generi necessari alla cura e alla pulizia personale.

________________________________________________________________________________

Lettera dei detenuti del carcere di Padova a benedetto XVI – Ristretti Orizzonti, 24 febbraio 2011

Ci serve la voce della Chiesa, che dica in modo forte e chiaro che le carceri in queste condizioni non rispettano la dignità delle persone.

Verso la fine dell´anno passato abbiamo letto sui giornali che Sua Santità ha voluto donare ai suoi collaboratori 232 panettoni prodotti dai detenuti per la cooperativa Giotto all´interno del carcere due Palazzi di Padova. Non è sicuramente casuale la Sua scelta. In effetti il laboratorio di Pasticceria della Casa di Reclusione è famoso in tutta Italia per la bontà dei suoi panettoni, colombe pasquali e dolci vari. Tanto pubblicizzato che chi sente parlare del carcere due Palazzi, lo associa subito alla pasticceria.

Tanta è la fama acquisita che le persone che leggono sui giornali queste cose, e non hanno conoscenza di come è la realtà all´interno di questo istituto, sono portate magari a pensare che tutti i detenuti qui ristretti siano impegnati (e pagati) per produrre dolci. Quindi che ci sia abbondanza di soldi e abbondanza di dolci alla portata di tutti.

Ma non è esattamente così. Padova non è immune dai mali che affliggono tutte le altre carceri d´Italia, in primo luogo quello del sovraffollamento. Il carcere di Padova era in origine progettato per 350 posti ma dopo un po´ di tempo era stato riempito con 700 detenuti (cioè il doppio della capienza prevista) e ora con l´emergenza sovraffollamento il numero dei detenuti ospitati si sta avvicinando inesorabilmente a mille, il che significa che in stanze per una persona singola ci si ritrova ristretti in tre!

Dei circa 900 detenuti ospitati attualmente all´interno dell´Istituto di Padova, oltre ai 10 che lavorano in pasticceria, ce ne sono circa altri 200 che svolgono altri lavori a vario titolo, una parte impiegati in lavorazioni delle cooperative e un´altra parte alle dipendenze dell´Amministrazione Penitenziaria, per la quale svolgono lavori di pulizia nelle sezioni e corridoi, oppure fanno i portavitto, i magazzinieri ecc.

In pratica, se su circa 900 sono 200 quelli che lavorano, significa che altri 700 sono ozianti che trascorrono l´intera giornata senza fare niente, chiusi nelle loro piccolissime celle di dimensioni 3,80 x 2,70 in condizioni, come si dice da tutte le parti “disumane e degradanti”..

Nel panorama delle carceri italiane Padova non è certo l´istituto messo peggio, anzi chi ne ha girati tanti dice che a confronto di altre carceri qui si sta addirittura bene. Se si sta bene qui figuriamoci come si può stare negli altri istituti, nei quali le condizioni sono semplicemente invivibili.

Per capire quanto sia grave la situazione del sovraffollamento basti pensare che nel 2006 quando il numero dei detenuti stava arrivando a 61000 (numero mai raggiunto prima), l´80% dei Parlamentari votò a favore dell´indulto ritenendo la situazione non ulteriormente tollerabile.

Oggi il numero dei detenuti all´interno dei penitenziari italiani oscilla attorno ai 70.000! Con la differenza rispetto al 2006 che ci sono stati tagli alle spese per la sanità, per il lavoro dei detenuti, per i prodotti di prima necessità tipo forniture di saponi, dentifrici, spazzolini e anche per l´alimentazione, basti pensare che il budget per garantire i tre pasti giornalieri ai detenuti fino allo scorso anno era di 4,15 €. Adesso pare sia sceso a 3,18 €.

Sempre più allarmanti sono le notizie sulle morti in carcere, ci sono persone che muoiono o per malasanità o per suicidio senza che nessuno, o quasi nessuno, fuori si scandalizzi. Non passa giorno che non siano fatti reclami per protestare contro le condizioni disumane in cui i detenuti sono costretti a passare le loro giornate in violazione palese sia dell´Ordinamento Penitenziario che della stessa Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell´Uomo. A tutto questo bisogna naturalmente aggiungere il disagio delle persone che lavorano all´interno degli istituti, che sono in numero molto inferiore a quello che dovrebbe essere.

La Corte Europea ha condannato l´Italia parecchie volte per violazione dei diritti dell´uomo e ha esortato il governo italiano a trovare subito soluzioni al problema. Ma dal Ministero dicono che la soluzione è quella di costruire nuove carceri. È stato annunciato un piano carceri dove si prevedeva di creare 20.000 nuovi posti. È stato dichiarato lo stato di emergenza per tutto l´anno 2010, ora questo stato di emergenza è stato rinnovato per tutto il 2011, solo che in un anno e più di stato di emergenza non si sono visti significativi risultati, mentre il numero dei detenuti è sempre in aumento e il numero dei morti in carcere pure.

Ecco perché vorremmo tanto poter dire a Papa Benedetto XVI che una Sua parola in questo momento sarebbe importante. Visto che il Governo è sordo ai nostri appelli noi detenuti ci rivolgiamo allora a Sua Santità affinché faccia sentire la Sua voce presso le Autorità italiane, così come aveva fatto il suo, mai abbastanza compianto predecessore, Papa Woityla, per ricordare a chi ci governa che le carceri sono fatte per riabilitare le persone al fine di un reinserimento nella società. Ora come ora invece altro non sono che dei lager.

Tutti noi ci auguriamo che un Suo autorevole intervento possa scuotere i nostri governanti e l´opinione pubblica dalla loro indifferenza e dal loro cinismo.

________________________________________________________________________________

Lettere di Radio Carcere -I detenuti scrivono a Riccardo Arena, animatore di Radio Carcere.

Caro Riccardo, sono internato nel carcere di Sulmona. Sono uno dei tanti che si trova qui perché sottoposto a misura di sicurezza detentiva. Secondo la legge dovremo lavorare, ma invece siamo costretti a stare sempre in cella, come gli altri detenuti. Di fatto viviamo in tre persone dentro una cella di soli 6 mq e ti assicuro che non è facile vivere per 22 ore così. Qui a Sulmona molti sono indotti alla disperazione, qualcuno tenta il suicidio e altri purtroppo ci riescono.

Così come è accaduto la notte tra il 7 e l’8 gennaio quando si è impiccato un ragazzo di 28 anni, che era internato come me. Dopo poche ore anche un altro internato ha cercato di uccidersi, prima tagliandosi le vene e poi impiccandosi, ma per fortuna è stato salvato dai compagni di cella. Qualche giorno fa un detenuto ha poi tentato di impiccarsi, dandosi anche fuoco e un altro ancora ha tentato di uccidersi impiccandosi con i lacci delle scarpe. Il tutto nel giro di 48 ore. Insomma la situazione a Sulmona è sempre più tesa e ne vedo tanti di ragazzi pronti a farla finita. D’altra parte sopravvivere qui basta poco per lasciarsi andare. Pensa che io, dopo aver scontato ben 17 anni di carcere, sono stato portato a Sulmona da internato. Una pena senza condanna e senza una fine che mi sta facendo impazzire.

Mimmo dal carcere di Sulmona

________________________________________________________________________________

Caro Arena, sono un detenuto tossicodipendente. Devi sapere che prima mi trovavo nel carcere di Busto Arsizio dove ero ristretto in una sezione per tossicodipendenti. Li seguivo un programma di recupero e stavo quasi per ottenere la possibilità di scontare la mia condanna in una comunità terapeutica. Invece all’improvviso sono stato trasferito qui nel carcere di Prato. Sono lontano dalla mia famiglia e soprattutto non vengo più seguito per i miei problemi di tossicodipendenza. In altre parole con un semplice trasferimento hanno cancellato la mia speranza di essere curato.

Per quanto riguarda il carcere di Prato considera che potrebbe ospitare 300 detenuti mentre oggi siamo arrivati al limite di 800 persone. Un sovraffollamento che getta il carcere di Prato nel caos.

Siamo ammucchiati in piccole celle, il freddo ci spezza le ossa in quanto il riscaldamento non funziona bene e spesso manca l’acqua in cella. Il che ci crea gravissimi problemi igienici, basti pensare che non possiamo scaricare il cesso della cella, cesso che rimane pieno di merda e piscio. Una carenza di acqua che incide anche sull’igiene delle cucine e dei carrelli con cui ci viene portato il vitto. Senza acqua tutto rimane sporco perché non lavato.

Vi informo che anche per questo a giorni inizierò lo sciopero della fame e vi ringrazio per quello che fate.

Michele dal carcere di Prato

Cara Radiocarcere, vi scrivo per informarvi su dei nuovi particolari relativi a quel detenuto picchiato nel carcere di Teramo. Pestaggio reso noto dalla famosa registrazione del comandante degli agenti (ndr“Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto…”)

Prima di tutto qui in carcere si dice che l’agente che ha picchiato il detenuto ha dichiarato di essere stato a sua volta aggredito e poi si è preso un lungo periodo di ferie. L’agente avrebbe dichiarato di aver subito diverse lesioni, cosa strana visto che il detenuto picchiato è molto magro ed esile di costituzione. Il fatto è che il giorno in cui quel detenuto è stato picchiato circa dieci detenuti hanno visto tutto, ma per ovvie ragioni hanno preferito non parlare.

Ora però io ho visto quel detenuto in infermeria. Ed ho visto con i miei occhi il segno degli anfibi sulla sua schiena e le costole inclinate di quel povero disgraziato.

Ma ciò nonostante il comandante degli agenti ha dichiarato la sua innocenza e ha parlato di un malinteso. Davvero incredibile! Comunque sia sappi che qui nel carcere di Teramo stanno uscendo altre storie di violenza analoghe il che non è molto tranquillizzante.

Per il resto nel carcere di Teramo siamo sempre più sovraffollati. Le celle sono strapiene e, chi è  meno fortunato, è costretto a dormire per terra all’interno di  stanze che non sono nemmeno delle celle. Una forte stretta di mano.

Lorenzo dal carcere di Teramo

(lettere pubblicate da Radio Carcere)

________________________________________________________________________________

3/02/2010: Lettera dal carcere di Spoleto
Sarebbe importante che il luogo carcere diventasse spazio aperto per i giornalisti.
L’appello del giornale “Il Manifesto” e dell’Associazione Antigone per favorire l’accesso ai giornalisti in carcere è di fondamentale importanza.
La prigione è un mondo ignoto per tutti quelli che sono liberi: far conoscere ai cittadini l’inferno che i politici hanno creato e mal governato sarebbe vitale per portare la legalità in carcere.
Sarebbe importante che i giornalisti, e quindi i cittadini, sapessero degli abusi, dei soprusi, delle ingiustizie, dei pestaggi e delle violenze che accadono in carcere.
Sarebbe di grande interesse che i cittadini sapessero che la galera in questi ultimi anni è diventata uno spazio solo per “allontanare, emarginare, isolare e controllare” il disagio sociale.
Sarebbe importante che i cittadini sapessero che in carcere ci sono sempre meno delinquenti e sempre più emarginati, tossicodipendenti, barboni, extracomunitari e “avanzi sociali”.
Un carcere trasparente e aperto alla stampa, come qualsiasi luogo pubblico, ovviamente con delle regole, farebbe bene al carcere, ai detenuti e alla polizia penitenziaria, per affrontare le contraddizioni di questo “non luogo”.
Rendere trasparente il luogo carcere farebbe bene alla democrazia.

……………………………………….
Spero che un giorno non lontano i giornalisti possano entrare in carcere per fare conoscere all’opinione pubblica quello che accade nelle prigioni di stato e per far sapere perché molti detenuti preferiscono suicidarsi che vivere. Ma questo ve lo posso dire anch’io: il carcere in Italia non ti toglie solo la libertà, ti toglie soprattutto la dignità, ti prende a calci l’anima, ti strappa il cuore e ti ruba quel poco d’amore che ti è rimasto dentro.

In questi nostri giorni, innocenti o colpevoli, tutti possono entrare in carcere, ed è meglio per tutti che si sappia quello che si può trovare dentro.

Carmelo Musumeci
Carcere Spoleto Febbraio 2010

________________________________________________________________________________

ULTIMA LETTERA RICEVUTA IL: 24.07.08 da Manuel Eliantonio morto nel carcere di Sanpierdarena.

Carissime bamboline mi dispiace che non vi ho fatto avere più mie notizie ma anche io ho i miei problemi,mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana ora ho solo un occhio nero,mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo ma se non li prendo mi ricattano con le lettere e le domandine che faccio. Quella cosa l’autentificazione qui dicono che non si può fare. Cosa posso farci,io ti aiuterei volentieri ma non mi danno la possibilità. Sono in isolamento almeno 4 giorni alla settimana è già tanto che ricevo le lettere sto mangiando poco e niente anche io, ho fatto il processo il 4 giugno mi hanno condannato a 5mesi e 10 giorni facendo i calcoli con la galera che ho fatto da dicembre dovrei essere fuori i primi di agosto se dio vuole!?

Gli ho detto all’avvocato di fare qualche istanza per farmi scarcerare prima ma non ho avuto nessuna risposta,provaci un pò tu a far un pò di pressione per qualche buona istanza.

Salutami la bimba  TI VOGLIO BENE,STAI IN FORMA,SCRIVIMI,FAMMI SAPERE. SE PUOI FAMMI SAPERE SE STO AVVOCATO DI MERDA FA QUALCOSA, COSì PAGHIAMO TUTTO.

MANUEL è stato dichiarato MORTO il 25/07/2008. dal Carcere MARASSI di GENOVA

Sami Mbarka Ben Garci, muore il  5 settembre 2009 dopo uno sciopero della fame di 47 giorni nel carcere di Pavia

Lettera dei suoi compagni di carcere

Egregio signor Avvocato! noi detenuti della 1a abbiamo assistito alla lunga agonia del suo povero cliente, una morte lenta e umiliante. Sicuramente non pagherà nessuno per questa morte, ma le assicuriamo che si poteva evitare benissimo, bastava un pizzico di umanità in più.Era diventato come un prigioniero nei campi di concentramento vomitava acidi e sveniva davanti agli occhi di tutti veniva aiutato da noi detenuti per fare la doccia altrimenti poteva morire nel suo vomito!
Ma non è stato fatto assolutamente niente tranne che lasciarlo morire nella sua cella sotto gli occhi del compagno che più di tutti ha visto spegnersi un essere umano!! La preghiamo vivamente di non arrendersi alle falsità che le verranno dette perchè il suo povero cliente è stato lasciato morire sotto gli occhi di tutti noi!
Prima di lui si è impiccato un altro ragazzo seminfermo e invalido al 75%  dopo averlo riempito di sedativi e spedito a San Vittore. Il padre di questo povero ragazzo ha denunciato la sua storia su Rai 3 nel programma di Tirabella accusando il carcere di Pavia di aver lasciato morire il proprio figlio!! La preghiamo di andare fino in fondo con la speranza che non succeda mai più che delle vite umane diano uno spettacolo di un campo di concentramento finchè non si spengono nella più totale indifferenza. Sarebbe una bella  e giusta cosa se l’Indagine che verrà fatta si arricchisse anche delle testimonianze dei detenuti della 1a sezione. Le porgiamo i nostri più sinceri saluti

I detenuti della 1a sezione di Pavia!

Ultima lettera di Sami

“Ciao Amore speriamo che tu stia bene tanti auguri x il Ramadan speriamo che ti porta fortuna e tanti auguri alla tua famiglia per il ramadan e tanti auguri a tutto il mondo mussulmano x il Ramadan, io sto morendo sono dimagrito troppo, credimi non riesco neanche ad alzarmi dal letto, spero Dio che fai presto Amore mio ma no dirlo a mia madre, bisogna accettare il destino, io ho ricevuto la tua lettera ti dico che mi dispiace io lo sciopero non lo tolgo di questa vita a me non me ne frega niente STO MORENDO!!! SAMI”.

_________________________________________________________

Da Storie di Ponte e di Frontiere – a cura di Be Free Cooperativa Sociale

Ogni volta che vado al CIE non sono preoccupata per le molte donne che stiamo seguendo o per i colloqui che dovrò sostenere, la fatica del CIE proviene dalle sbarre, da quel senso di deprivazione e di depersonalizzazione che ti entra dentro, dall’urlo soffocato che si respira e si percepisce forte e assordante nell’aria che grida “perché?!”. Perché sono qui dentro, perché devo rimanerci sei mesi, perché ancora questo dopo tutto quello che ho già subito. Molto spesso le donne che incontriamo non sanno dove sono né perché devono stare lì e noi siamo una voce che prova a fare un po’ di chiarezza, che fornisce le informazioni che diventano idee per controllare la paura, per gestire lo stress che è tortura quando ci si sente in balia degli eventi, quando il vissuto che si ha è che la propria vita è in mano a qualcun altro che può agire quando vuole e bisogna sempre stare all’erta.
……………………………………..
La prima volta che sono entrata nel CIE, forte e sicura della mia precedente esperienza nelle carceri sono rimasta invece profondamente turbata dalla struttura stessa di quel luogo teso a delimitare la fisicità della persona: mura, filo spinato, cancelli chiusi; ho provato disgusto e profonda amarezza.
Ma questo è nulla rispetto agli sguardi delle moltissime donne prevalentemente nigeriane. Sguardi smarriti, assenti, sconfitti. E’ proprio da quest sguardi che è iniziato il nostro lungo e faticoso lavoro.
Così dall’impotenza iniziale, caratterizzata dalla frustrazione del “tentare” alla rabbia per il profondo sentimento di ingiustizia che tante volte ha rischiato di dividerci, trincerate dietro le differenti posizioni di ognuna di noi, che si è arrivati alla consapevolezza delle diverse possibilità che alcune disposizioni normative italiane potevano offrire, dando loro due ali per volare al di là di quelle mura, restituendo loro la dignità perduta, deprivata da un sistema seppur amministrativo, di fatto detentivo.
_______________________________________
Era tunisina Nabruka Mimuni, la donna che tra il 6 e il 7 maggio del 2009 si impiccò a Ponte Galeria, nel bagno del più grande CIE d’Italia. E in Tunisia sarebbe stata deportata il giorno seguente, dopo oltre vent’anni di residenza stabile nel nostro paese, grazie agli accordi rinnovati dall’Italia proprio nel 2009 con il dittatore Ben Alì.

_______________________________________
Lettera dal Cie di Ponte Galeria – 2010

A tutte le persone che vivono in questo paese
A tutti coloro che credono ai giornali e alla televisione

Qui dentro ci danno da mangiare il cibo scaduto, le celle dove dormiamo hanno materassi vecchi e quindi scegliamo di dormire per terra, tanti tra di noi hanno la scabbia e la doccia e i bagni non funzionano. La carta igienica viene distribuita solo 2 giorni a settimana, chi fa le pulizie non fa nulla e lascia sporchi i posti dove ci costringono a vivere. Il fiume vicino il parcheggio qui fuori è pieno di rane e zanzare  che danno molto fastidio tutto il giorno, ci promettono di risolvere questo problema ma continua ogni giorno. Ci sono detenuti che vengono dai CIE e anche dal carcere che sono stati abituati a prendere la loro terapia ma qui ci danno sonniferi e tranquillanti per farci dormire tutto il giorno.
Quando chiediamo di andare in infermeria perchè stiamo male, l’Auxilium ci costringe ad aspettare e se insistiamo una banda di 8-9 poliziotti ci chiude in una stanza con le manette, s’infilano i guanti per non lasciare traccia e ci picchiano forte.
Per fare la barba devi fare una domandina e devi aspettare, 1 giorno a settimana la barba e 1 i capelli.
Non possiamo avere la lametta.
Ci chiamano ospiti ma siamo detenuti. ………………………………………………………………………….

Veniamo da paesi poveri, paesi dove c’è la guerra e ad alcuni di noi hanno ammazzato le famiglie davanti gli occhi. Alcuni sono scappati per vedere il mondo e dimenticare tutto e hanno visto solo sbarre e cancelli.
Vogliamo lavorare per aiutare le nostre famiglie solo che la legge è un po’ dura e ci portano dentro questi centri. Quando arriviamo per la prima volta non abbiamo neanche idea di come è l’Europa. Alcuni di noi dal mare sono stati portati direttamente qui e non hanno mai visto l’Italia.
La peggiore cosa è uscire dal carcere e finire nei centri per altri 6 mesi.
Non siamo venuti per creare problemi, soltanto per lavorare e avere una vita diversa, perchè non possiamo avere una vita come tutti?
Senza soldi non possiamo vivere e non abbiamo studiato perchè la povertà è il primo grande problema. Ci sono persone che hanno paura delle pene e dei problemi nel proprio paese.
Per questi motivi veniamo in Europa.

La legge che hanno fatto non è giusta perchè sono queste cose che ti fanno odiare veramente l’Italia.
Se uno non ha mai fatto la galera nel paese suo, ha fatto la galera qua in Italia.
Vogliamo mettere apposto la nostra vita e aiutare le famiglie che ci aspettano.
Speriamo che potete capire queste cose che sono veramente una vergogna.

Un gruppo di detenuti del CIE di Ponte Galeria (Roma)

________________________________________________________________________________

Lettera dal CIE di Gradisca 2010

Noi stiamo scioperando perché il trattamento è carcerario, abbiamo soltanto due ore d’aria al giorno, una al mattino e una la sera, siamo tutti rinchiusi qui dentro, non possiamo uscire.
Ci sono tre minorenni qui dentro, sono Tunisini e hanno 16 anni, ci chiediamo come mai li hanno messi qui se sono minorenni?
Il cibo fa schifo, non si può mangiare, ci sono pezzi di unghie, capelli, insetti…
Siamo abbandonati, nessuno si interessa di noi, siamo in condizioni disumane.
La polizia spesso entra e picchia. Circa tre mesi fa con una manganellata hanno fatto saltare un occhio ad un ragazzo, poi l’hanno rilasciato perché stava male e non volevano casini, e quando è uscito, senza documenti non poteva più fare nulla contro chi gli aveva fatto perdere l’occhio.
Ci trattano come delle bestie.
Alcuni operatori usano delle prepotenze, ci trattano male, ci provocano, ci insultano per aspettare la nostra reazione, così poi sperano di mandarci in galera, tanto danno sempre ragione a loro.
C’è un ragazzo in isolamento che ha mangiato le sue feci. L’hanno portato in ospedale e l’hanno riportato dentro. È da questa mattina che lo sentiamo urlare, nessuno è andato a vederlo, se non un operatore che l’ha trattato in malo modo.
Il direttore fa delle promesse quando ci sono delle rivolte, poi passano le settimane e non cambia mai niente.
Da due giorni siamo in sciopero della fame, e il medico non è mai entrato per pesarci o per fare i controlli, entra solo al mattino per dare le terapie.
Continueremo a scioperare finchè non cambieranno le cose, perché 6 mesi sono troppi e le condizioni troppo disumane.
Questo non è un posto ma un incubo, perché siamo nella merda, è assurdo che si rimanga in queste gabbie. Sappiamo che molta gente sa della esistenza di questi posti e di come viviamo. E ci si chiede, ma è possibile che le persone solo perchè non hanno un pezzo di carta debbano essere rinchiuse per 6 mesi della loro vita?

Reclusi del CIE di Gradisca

________________________________________________________________________________

Franca Salerno, militante dei Nuclei armati proletari, arrestata nel 1975 e condannata dopo un tentativo di evasione a 18 anni per banda armata.

Al processo, a quanti anni ti hanno condannata?A 18, per banda armata”.
Sapevi di essere incinta al momento dell’arresto? “Sì, avevo questo bambino in pancia e volevo salvaguardare la sua vita. Antonio era morto, Pia era stata portata via con l’autoambulanza ferita, io ero sul selciato e gridavo: “Sono incinta”, ma da ogni autocivetta uscivano uomini e picchiavano. Sino a quando è arrivato anche per me il momento di andare in ospedale”.

Cosa vuol dire fare un figlio in carcere? “Guarda che io il figlio l’ho fatto fuori, in carcere l’ho partorito. Ma non mi sono sentita mamma da subito, all’inizio mi vergognavo. Quasi che il mio essere gravida fosse un tradimento alla rivoluzione”.

Ed è rimasto con te in carcere? “Sino ai tre anni andava e veniva, perché in carcere i bambini non stanno bene. E poi ho fatto molto carcere da sola, come a Nuoro, dove in sezione c’eravamo solo io e lui. Forse dalle lettere avevano capito che vivevo la maternità in modo confittuale e mi hanno messo alla prova”.

Come si chiama? “Antonio”.

Poi cosa è successo? “Compiuti i tre anni, i bambini in carcere non ci possono più stare. È stato un grosso dolore, ma esistevano i compagni e le compagne. E lui esisteva, esisteva come cosa viva, non solo come perdita. Poi ci sono stati le carceri speciali, i vetri divisori nella sala colloquio che per anni ci hanno impedito di toccarci, e tutte le altre difficoltà che “loro” mettevano in mezzo. Ma a me non fregava niente. Mio figlio esiste, mi dicevo, e anche se va via troverò un modo per costruirci qualcosa assieme, per crescerci assieme”.

Chi lo ha tenuto? “Mia madre, mia sorella, l’altra nonna”.

Lui ti ha mai chiesto perché stavi in carcere? “Si, aveva cinque anni e voleva dare risposte alla sua vita di bambino nato dietro le sbarre. Potevo spiegargli la rivoluzione? E poi non mi piace la retorica gloriosa. Così gli ho detto: la mamma ha rubato. Poi, piano piano, ho cercato di spiegare. Ma il racconto vero dei percorsi che mi avevano portato in carcere c’è stato quando sono uscita e lui aveva 16 anni”.

 

_________________________________________________________________

La lettera che segue è scritta da una compagna indigena di poco più di vent’anni, imprigionata ingiustamente in un penitenziaro del Chiapas. Come lei, moltissimi uomini e donne indigene riempiono le celle sovraffollate di queste carceri. Per la maggior parte accusati di delitti che non hanno commesso, vengono messi in prigione solo perchè il potere ha bisogno di un colpevole e gli indigeni, che spesso non parlano lo spagnolo, sono le vittime più semplici di questo sistema spietato e ferocemente razzista. Rosa, come moltissimi altri e altre, ha subito pesanti torture al momento dell’arresto, con lo scopo di fargli firmare una falsa confessione. Picchiata, umiliata, sfregiata nel corpo e nella mente, la testa infilata in un sacchetto di plastica, poi sott’acqua fino a toglierle l’aria. Ma Rosa è una prigioniera che lotta, è una donna che ora ha preso coscienza dei propri diritti e che si è organizzata insieme a altri prigionieri del carcere in un collettivo “Los solidarios de la Voz del Amate” per denunciare gli abusi subiti e per strappare ai suoi aguzzini e carcerieri la sua preziosa libertà. L’abbiamo conosciuta così e così si racconta in questa lettera. Per noi è un onore lottare al suo fianco e al fianco del collettivo la Voz Del Amate, aderente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’EZLN e partecipante all’Altra Campagna in maniera attiva nelle carceri del Chiapas dal 2006.

Dal carcere Numero 5 di San Cristobal de Las Casas, Chiapas, Messico – 10 aprile 2011

Compagni e compagne delle differenti associazioni che oggi siete riuniti in questo incontro contro la turtura nelle carceri, buongiorno o buonasera a tutti e tutte voi. Vi manda un saluto la umile persona che sono io, e che la benedizione di Dio sia con voi, oggi e sempre.

Prima di tutto vi ringrazio per lo spazio che mi state dando. Oggi, per la prima volta, voglio raccontare con la mia voce quello che ho vissuto e sto vivendo in questi 4 anni di carcere.

Il mio nome è Rosa López Díaz e sono un’indigena di lingua tzotzil, nata in una famiglia di umili origini, con poche risorse. Mi hanno arrestata il giorno 10 maggio del 2007 insieme a mio marito. Ci hanno accusato di un delitto che non abbiamo commesso. Ho sofferto trattamenti inumani come le torture fisiche, le torture psicologiche, minacce di morte. E’ stata la cosa più triste della mia vita. Come donna mai potrò scordare i volti delle persone che mi hanno picchiata senza un motivo, uomini e donne che dicono di avere un’autorità, ma non si toccano mai il cuore e si dedicano solamente a violare i diritti umani e a imputare delitti alle persone che non danno loro denaro. E fabbricano i delitti di cui ci accusano e ci rinchiudono in carcere perchè non conosciamo i nostri diritti. E siamo calpestati, ignorati e privati dei nostri diritti come esseri umani.

Chiedo solo perdono a Dio, perchè un giorno possa curare le ferite che porto dentro e fuori. Quello che è il dolore più grande della mia vita è che io mentre mi torturavano ero incinta di 4 mesi e dopo 5 mesi ho dato alla luce un bambino che si chiama Nataniel López López che è nato malato, con una paralisi cerebrale e deformato in volto. Non può muovere il suo corpo, nulla. I dottori hanno detto a mia madre che il bambino è nato malato per le torture che ho ricevuto quando mi hanno arrestato.

Oggi continuo a chiedere misericordia a Dio perchè mio figlio possa ricevere una cura adecuata alla sua malattia. Ho toccato varie porte, ma nessuno mi ha fatto caso e oggi chiedo a Dio che tocchi il vostro cuore, perchè un giorno, insieme, mi possiate aiutare a superare questo dolore che mi trascino dentro giorno dopo giorno sola. Ma non ce la faccio più, ho bisogno di tutti voi, compagne e compagni, perchè insieme dobbiamo distruggere il mal governo che gestisce i nostri paesi. Ci meritiamo di essere trattati con dignità, ci meritiamo uguaglianza, pace, giustizia, democrazia. Perchè in un mondo di bambini, entrano molti mondi!

Compagni e compagne non perdetevi d’animo, non vi lasciate turbare. Bisogna continuare ad andare avanti senza guardarci indietro. Dobbiamo perseverare per vincere. E animo in tutte le vostre attività.

Tutti quelli che sono presenti oggi non mi conoscono, però sento comunque che siamo una grande famiglia unita, perchè dove siete voi, ci sono io e dove sono io, ci siete voi. Vi porto nel mio cuore oggi e sempre, in questo incontro indimenticabile vi saluto.

Dio benedica ognuno di voi e le vostre famiglie. A presto.

Rosa López Díaz


Pubblicato in Generale | Commenti disabilitati su Memorie di Aprile al Museo della Liberazione a Via Tasso