Roma libera – No ai fascismi vecchi e nuovi

Caro Sindaco,

in occasione dell’iniziativa di Salvini, il Campidoglio è stato vietato, da cordoni di poliziotti e dai suoi vigili. Vietato ai cittadini perché si compisse lo spettacolo di Salvini, “conquistatore del Campidoglio” accompagnato da individui che portavano striscioni che chiedevano le sue dimissioni. Ai suoi contestatori e al Salvini di “roma ladrona” è stato concesso di salire sulla piazza e ai suoi cittadini no.

Credo che, nel rispetto dei cittadini da lei amministrati, avrebbe dovuto lasciare alla polizia e alla questura il vergognoso compito di impedire la libera circolazione dei cittadini nella propria città, rifiutandosi di usare i suoi vigili, con la consapevolezza che se Salvini in qualità di capo della lega Nord può manifestare sotto il Marc’Aurelio, la stessa libertà deve essere lasciata a chi lo contesti.

Cogliamo anche l’occasione per esprimere tutta la nostra preoccupazione anche per l’incursione nelle stanze del Campidoglio di alcuni giorni fa dei giovani di destra che intonavano canti e slogan dichiaratamente fascisti con il braccio teso, guidati da personaggi legati al mondo degli ultrà e della malavita.

Come le abbiamo già espresso nell’incontro avuto con lei, ci preoccupano queste manifestazioni e la presenza dell’organizzazione di Casa Pound sempre più consolidata sul territorio romano e nazionale che ormai si dichiara alleata della Lega.

Ci preoccupa che non ci sia una strategia di sbarramento a livello politico e amministrativo. Ci preoccupa che si permettano manifestazioni di compagini politiche dichiaratamente razziste e fasciste e non vengano permesse manifestazioni di contrasto al razzismo e al fascismo di chi cerca, con tutti i mezzi di difendere le leggi e quel po’ di democrazia rimasta nel nostro Paese e nella nostra Città.

Siamo preoccupate perchè leggendo la Storia è proprio questo infiltrarsi subdolamente nella società, a piccoli passi che fa sì che la maggior parte dei cittadini non percepisca la gravità della situazione. La Storia ci indica ciò che può accadere in seguito. E non ci piace. Noi, come le abbiamo espresso nel nostro incontro siamo sempre disposte a collaborare per contrastare questa deriva che definire preoccupante è poco.

Comitato Madri per Roma Città Aperta

27 febbraio 2015

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Non dimentichiamo, non perdoniamo – Ni oubli, ni pardon

Valerio Verbano, una memoria al presente
Quest’anno Valerio avrebbe compiuto 54 anni. Vale la pena di ricordarlo: perchè oggi, con buona probabilità, avrebbe avuto 35 anni in più di quelli che il suo destino gli ha concesso. Sì, davvero, ricordiamocelo, questo dato essenziale – ricordiamocela questa pura e semplice verità. A Valerio sono stati tolti, rubati, negati, fino a oggi, anni e anni di vita. Non importa quanti e quali: inutile cercare di descrivere una storia che non c’è stata.

Inutile immaginare un volto, degli occhi, un sorriso mutati dal procedere del tempo, ma sempre suoi, sempre quelli che alcuni di noi hanno conosciuto e continuano a ricordare. Inutile pensare a una compagna, a dei figli, a un mestiere, a una professione, a gioie e dolori, a sentimenti, interessi, a passioni che avrebbero potuto esserci e che non ci sono state.

Sarebbe solo un gioco sbagliato e pretestuoso, ingannevole. Della vita, la morte è la sanzione, l¹atto finale, non il proseguimento sotto mentite spoglie. Il passaggio definitivo e irreversibile: per Valerio tanto più tragico, è bene ricordarcelo se mai ce ne fosse bisogno, perché ancora non risolto, non redento dalla necessaria riconciliazione della realtà con il senso comune, con la logica del finale di verità che chiude il cerchio del racconto, che redime il disegno della narrazione. Solo così ha senso proclamare, come facciamo spesso, che ‘Valerio vive’.FB_IMG_1424588987776

Nella nostra cultura politica, nel nostro sistema di valori soprattutto, raccontiamo spesso che la memoria e il ricordo siano un ponte, il passaggio tra passato e futuro, tra ciò che è stato e ciò che dovrà essere. Il presente, il momento del qui e dell’ora è, deve essere perciò, nel ricordo di Valerio e della sua giovane vita stroncata, ma anche in quello dell’indimenticabile Carla, per molti anni una compagna di strada, l’occasione viva e vitale che permetta che questa vicenda sia nella sua esemplarità davvero e ancora ‘bene comune’ di una nuova generazione di giovani militanti, che si battono per la giustizia sociale e provano a costruire, qui e ora, un società diversa da quella capitalista dove siamo immersi.FB_IMG_1424588991032

Per ciò che è stata, e che non sarebbe mai dovuta accadere. Per ciò che dovrebbe e dovrà continuare a essere: riferimento sempre presente nelle nostre prospettive e nelle nostre speranze, interrogativo fondamentale sul senso stesso della nostra lotta, sulla sua forza e capacità di tenuta, sui suoi possibili scenari, sui nostri bisogni e sui nostri desideri, sui nostriorizzonti d’attesa.

una compagna di Valerio

da http://www.dinamopress.it/news/valerio-verbano-una-memoria-al-presente

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Emilio resisti – antifascismo internazionale

Des membres de l’AFA Paris Banlieue, de l’AFA NP2C et du JOC ont ensuite déployé une banderole à Dunkerque en soutien à Emilio, un camarade italien qui a subi une très violente attaque par des fascistes de Casapound à Crémone cette semaine. Il est actuellement dans le coma. Toutes nos pensées vont vers lui.
emilio-resisti-dunkerque

da https://luttennord.wordpress.com/2015/01/25/une-centaine-dantifascistes-a-calais-en-solidarite-avec-les-migrants/

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Il giorno della memoria

Ciao Emilio,
oggi per l’intero mondo è il giorno della memoria, quando, aprendo le porte di Auschwitz, vide qualcosa che era già noto da tempo, un sistema di repressione e morte molto grande e complesso, a conoscenza di molti e con molti più protagonisti di quanti se ne vollero trovare.

Ma non si può celebrare il giorno della memoria se, con la memoria nel cuore, non riesci a vedere il pericolo fascista di oggi.

Come fa uno Stato a celebrare il giorno della memoria se, davanti all’aggressione fascista di Cremona, non ricorda la sentenza della Cassazione con­tro diri­genti locali di Casa Pound che solo una anno e mezzo fa, evidenziava “un’ accertata opera di proselitismo e di indottrinamento svolta con assiduità, la quale………… illumina il significato delle condotte tenute, che non possono essere circoscritte a occasionali episodi di violenza, ma esprimono una strategia ideologicamente orientata alla sovversione del fondamento democratico del sistema”. Non la rissa tra balordi o le bande contrapposte, che ancora oggi esce dalle “indagini” di polizia e sulle pagine dei giornali!

Oggi per te Emilio, il giorno della memoria è segnato sul tuo corpo martoriato dall’attacco squadrista.

Il giorno della memoria delle madri è il giorno della memoria dei figli uccisi e feriti dal fascismo di ieri, e del terzo millennio: Walter, Valerio, Dax, Renato, Clement Pavlos,Emilio.

Oggi , giorno della memoria noi siamo strette ad Enrica, la tua compagna e ai tuoi tre figli.

Madri per Roma Città Aperta

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Attacco fascista di Casa Pound a Cremona

Con le lacrime agli occhi continuiamo a seguire le informazioni che
arrivano da Cremona.
Un compagno, l’ennesimo, è stato colpito e mandato in coma all’ospedale
da un’aggressione fascista; attaccato davanti al centro sociale Dordoni.
Come al solito i media fanno fatica a chiamare le cose con il proprio
nome. O meglio, in queste occasioni, sono leggeri, ipotetici, alludono
ma non affermano, la solita danza dell’equidistanza. Del resto se l’hanno ridotto in fin di vita un motivo ci sarà.
E il motivo effettivamente c’è. Ed è rappresentato dall’opposizione radicale, profonda e quotidiana contro quella cultura della morte e della subordinazione che agita e muove i fascisti, come quelli di Casapound, “i fascisti del terzo millennio”, i responsabili di questa aggressione.
Dopo la morte di Renato dicevamo: abbiamo gli occhi ben aperti.
Oggi li continuiamo ad avere e vediamo come una pericolosa dinamica si stia producendo. E’ evidente quello che sta muovendo la Lega di Salvini, abbracciando la LePen da un lato e Casapound dall’altro. E’ un progetto ambizioso e mortifero, è la nuova faccia che promuove razzismo, esclusione, umiliazione: il nuovo volto del fascismo che si manifesterà a Roma il 28 febbraio.
Quegli stessi fascisti che sputano accuse xenofobe contro i migranti, che assaltano i centri per i rifugiati, che tengono bordone a chi fino a ieri li insultava, che, qui a Roma, vanno a braccetto con Carminati e Mafia Capitale, che sono lo scolo di quel meccanismo che ha sfruttato le emergenze e ora ringhia contro il più debole perchè è tenuto con il guinzaglio corto.
Questo per noi sono i fascisti, in Italia e in Europa. E questa aggrassione è l’ennesima mortale che avviene nel continente. Ma non vogliamo dare nulla per scontato, Emilio sta resistendo, ce la sta mettendo tutta e noi con lui.
Siamo al suo fianco, così come lo saremo Sabato a Cremona.
Emilio resisti.
Mai un passo indietro.

> Loa Acrobax
> Alexis Occupato
> Collettivo Scienze Politiche Roma3
> Madri per Roma città aperta
> Circolo ANPI Renato Biagetti

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Lettere dal Chiapas

Carissime,
non potete capire quello che ho fatto stamattina: stavo passeggiando nella piazza centrale di San Cristobal nel Ciapas con Franco e Fabio giornata stupenda con un sole caldo che evidenziava i colori della cattedrale di San Cristobal (giallo e rosso) abbiamo visto all’improvviso una manifestazione che veniva verso di noi e si sono fermati accanto ad un palco dove noi ci stavamo godendo il sole per fare alcuni interventi: erano le madri dei migranti in America che sono spariti ovvero altri desapericidos. teresa2Quando ho visto queste madri che strillavano con dolore di avere diritto di sapere che fine hanno fatto i loro figli,ebbene mi è scattata una molla, mi sono presentata ad una delle madri e le ho detto che anch’io facevo parte di un comitato di madri antifasciste formato dopo la morte di un ragazzo ucciso dai fascisti e che volevo esprimere al microfono sul palco la mia solidarietà e quelle delle altre madri del comitato per il loro dolore, e così è stato.
Sul palco mi sono presentata dicendo appunto che facevo parte di un comitato di madri e in cinque minuti(tempo concessomi) ho fatto la solita presentazione dell’uccisione di Renato e di Stefania che ha voluto questo comitato che lotta contro il fascismo in Italia. Naturalmente ho anche detto che le capivo, perchè solo una mamma le può capire.teresa1
Io devo ringraziarvi tutte, ma sopratutto Stefania che mi da l’energia per fare queste cose che le sento dentro me, ed è stato così spontaneo presentarmi e parlare a braccio (cosa che io non ho mai fatto), perchè sentivo la disperazione di quelle madri di figli e figlie spariti/e tanto da avere la forza di dire qualcosa vicine a loro anche se diverse.
Vi abbraccio immensamente
Teresa

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Chiapas – 1^ Festival mondiale delle resistenze e delle ribellioni

chapas1Carissime,
ora vi racconto i tre eventi importanti a cui ho partecipato:
22 Dicembre: memoria del massacro de “Las Abejas” nel villaggio di Acteal.
Sotto un grande capannone era allestito un altare per una messa in memoria al massacro che hanno subito 17 anni fa gli indigeni di questa comunità da parte dei paramilitari (civili che vengono pagati dal governo per i “lavori sporchi”), quando questi ammazzarono 45 indigeni, in maggioranza di donne di cui 4 incinte e vari bambini. Da allora ci sono stati 4 presidenti in carica al governo federale ma questa gente non ha ancora avuto giustizia.
Il capannone era pieno di gente di tutte le età e di tutte le nazioni. C’erano tanti vestiti e colori differenti. La cosa che più mi ha colpito è stata una messa molto particolare, con riti di preghiera maya e con interventi politici da parte dello stesso prete che celebrava la messa, ma anche da familiari delle persone massacrate che le ricordavano. Hanno fatto l’intervento anche i familiari (genitori e fratelli) di alcuni dei 43 studenti “desaparecidos” ad Ayoztinapa, nello stato del Guerrero. Sempre durante la messa si strillavano i soliti slogan che si gridano qui in Messico tipo: ZAPATA VIVE, LA LUCHA SIGUE oppure HASTA SIEMPRE. Pugni chiusi e comunioni.
Dopo la messa siamo andati a vedere la cappella dove sono state seppellite le 45 persone, impressionante vedere le foto dei bambini. Sono stati ricordati con musica, incenso, fiori e canti di lotta. Eravamo centinaia sotto la cripta, era molto emozionante.
Quando siamo andati via due amici di Fabio che stavano con noi hanno incontrato due indigene del posto che ci hanno invitate a pranzo nella loro casetta fra i monti; la cosa impressionante di queste persone è che sono molto povere, non avevano niente in casa (infatti la spesa l’abbiamo fatta noi) ma la loro ospitalità è immensa. Questa cosa mi ha commosso, hanno acceso il fuoco e abbiamo mangiato alla messicana cioè: fagioli, uova strapazzate con pomodoro e cipolla tutto accompagnato dalle tortilla messicane e hanno riempito due caraffe di spremute di arance, qui si usa tanto bere le spremute a pranzo. (Vi allego due foto).
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27 /30 Dicembre: 1^ Festival internazionale delle resistenze e delle ribellioni alla comunità Manclova nello stato di Campeche.
L’esperienza di questi quattro giorni è stata superlativa. La parte logistica è quella più sofferente: quattro giorni di riso e fagioli a pranzo e a cena, colazione con caffè americano e pane tutto però di produzione locale, ho dormito in macchina (sono stata privilegiata) mentre tutti gli altri in sacco a pelo per terra sotto un capannone immenso
L’enorme interesse per la parte politica e la grande possibilità di conoscere un sacco di persone è quello che mi ha fatto superare gli ostacoli, nonostante i miei acciacchi.
Il primo giorno e il secondo gli interventi sono stati fatti dagli indigeni (naturalmente si parla di zapatisti facenti parte del movimento de La Sexta nazionale) che come noi hanno spiegato chi sono, cosa fanno per migliorare il mondo, ecc.
Il terzo giorno hanno dato spazio agli internazionali e lì è incominciata l’ansia. Sono stata la prima di tutti, la prima di una lunga serie di interventi internazionali tra cui c’era, per esempio, anche Diego per il Nodo Solidale. Dopo la lettura del discorso, naturalmente in spagnolo, cercando di trasmettere la nostra energia e il nostro entusiasmo di lottare insieme, lì l’applauso è stato scrosciante (c’era il tifo soprattutto degli italiani).
Ragazze che tremarella!!!!!! Una cosa leggere in italiano una cosa in spagnolo… e poi davanti avevo centinaia di persone (dicono che i partecipanti erano 2000)!
Quando sono uscita, un paio di associazioni hanno chiesto la nostra mail per avere un contatto, io l’ho data, anche perché sono associazioni che condividono le nostre idee altrimenti non sarebbero state in quel luogo. Donne, soprattutto madri hanno voluto parlare e saperne di più del nostro comitato. Che fatica parlare spagnolo e far capire le nostre idee, la nostra lotta. Un’amica di Fabio che mi ha fatto da supporto perché Fabio non c’era, ha sentito che una signora, mentre leggevo, ha commentato che il nostro discorso l’era piaciuto perché era “un discorso scritto in un spagnolo semplice, ma è entrato nel nostro cuore”.
Sono tornata a casa stanchissima, sia fisicamente che mentalmente, ma felice che il nostro comitato ora è conosciuto qui in Messico soprattutto dalle comunità zapatiste e dal movimento nazionale e internazionale de La Sexta.
2/3 Gennaio 2015
Ultimo incontro e conclusioni del 1^ Festival mondiale delle resistenze e delle ribellioni
Questa volta l’incontro è stato fatto a San Cristobal de las casas, quindi ho dormito a casa mia e mangiato quello che mi pareva.
Quest’ultima tappa dell’incontro consisteva nel fare il riassunto degli interventi letti e ascoltati nei vari posti della carovana: Città del Messico, Campeche e Oventic. Infatti hanno fatto anche il riassunto del nostro intervento.
La cosa eccezionale che è successo in questo posto è stata un’intervista che mi hanno fatto due ragazze italiane che vivono in Città del Messico e lavorano per una radio di movimento, e un incontro filmato con una delle madri dei 43 studenti di Guerrero spariti. Io le ho raccontato in due parole la storia del nostro comitato, dicendo che nel nostro comitato ci sono madri che hanno perso figli uccisi dai fascisti e dalla polizia, quindi sappiamo quanto stia soffrendo e l’ho abbracciata dicendo che era l’abbraccio di tutte noi.
Suo figlio è l’unico che è stato ritrovato, in condizioni inenarrabili: il suo viso era senza pelle e non dico altro.
Questo materiale me lo dovrebbero inviare via mail.
Ragazze, dopo questa esperienza forte devo dire che sono cambiata: intanto questa energia che sento e che cerco di esprimere la devo a Stefania, perché in questi giorni pensavo al suo dolore e come lo affronta eroicamente ogni giorno, e quindi per lei e per Rosa, per Haidi e per tutte le madri che hanno sofferto e che soffrono ancora ma non per questo smettono di lottare:
LA LUCHA SIGUE! HASTA SIEMPRE LA VICTORIA!
La vostra Teresa

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Intervento di Teresa al Festival mondiale delle resistenze e delle ribellioni

Un saluto a tutti/e i/le partecipanti del Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni. Innanzitutto vogliamo ringraziare gli organizzatori di questo evento per permetterci di raccontare la lotta della nostra piccola organizzazione.
Io vengo a nome del Comitato “Madri X Roma Città Aperta”, un comitato di madri antifasciste nato a Roma e oggi con membri in varie città d’Italia e una in Argentina. Il nostro gruppo nasce come reazione all’omicidio di un giovane di 26 anni di Roma, Renato Biagetti, ucciso il 27 agosto del 2006 da due fascisti. Renato fu accoltellato a morte, colpevole di uscire da un locale con musica di “sinistra”, musica alternativa. La madre, Stefania, volle fortemente questo comitato per portare avanti la memoria di suo figlio con rabbia e con amore, cercando giustizia e ispirandosi alle madri di Plaza de Mayo. Durante i primi anni la lotta del Comitato si concentrò infatti sull’accompagnamento legale per il caso di Renato e nella denuncia continua presso le istituzioni ma anche nelle piazze riguardo la presenza fascista in città e riguardo l’appoggio istituzionale che godono questi assassini. Approfittiamo per spiegare brevemente che i fascisti in Italia sono come i “grupos de choque” del PRI in Messico: civili, imbevuti di ideologia razzista, che svolgono delle funzioni da paramilitari attaccando il “diverso”, gli immigrati, gli attivisti, i centri sociali e i gruppi organizzati.
Il Comitato è formato da donne che donano la loro energia di rinascita, il loro sostegno e il loro cuore rivolto ai ragazzi che lottano quotidianamente per realizzare i loro sogni liberi dalle ingiustizie, discriminazioni, abusi, soprusi, violenze. Siamo così un comitato sciolto, non agganciato a nessun carrozzone di partito, viaggiamo là dove ci porta il cuore.
Durante il percorso ci siamo accorte che Renato non era l’unico giovane ucciso in Italia dall’ingiustizia. Tanti ragazzi hanno perso la vita per colpa dei fascisti in borghese o in divisa: uccisi in posti di blocco, torturati in celle di isolamento, sparati duranti un corteo, impiccati in una cella. In Italia la violenza fascista gode della stessa impunità e protezione che godono le forze dell’ordine, anche esse dedite alla repressione violenta della diversità e dell’antagonismo. Questo avviene in un Paese che si dice fondato su una costituzione antifascista, nata dalla lotta contro la dittatura di Mussolini. Eppure i seguaci di quest’ultimo hanno sempre potuto agire per seminare terrore contro chi lotta per un mondo migliore.
Sappiamo che il fascismo e l’ingiustizia si combattono svegliando le coscienze, parlando il più possibile di queste morti di Stato che vorrebbero occultare o dimenticare. Per questo oggi, insieme a tante altre madri che hanno perso i loro figli per mano dei fascisti o della polizia, andiamo ovunque sia possibile armate della nostra parola e delle nostre verità: raccontiamo dei figli uccisi dalla mano di Stato ma diciamo anche che ogni compagno arrestato, ogni migrante scomparso, ogni donna violentata è nostro figlio o nostra figlia. Sentiamo profondamente il dolore di ogni madre e facciamo nostra ogni sua causa, frutto dell’ingiustizia generata dal capitalismo.
Per creare un mondo migliore per i nostri figli e i nostri nipoti, abbiamo deciso di andare di scuola in scuola, associazione per associazione, di corteo in corteo, ovunque sentiamo che è benvenuta la nostra parola, per parlare soprattutto ai giovani, speranza del domani, affinché sappiano che altri ragazzi come loro hanno perso la vita per una società più giusta mentre altri ancora sono morti solo perché il sistema attuale si fonda sulla sopraffazione dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna e dell’uomo sulla natura.
Abbiamo capito che è necessario imparare da altre lotte, per questo siamo qui e per questo ci siamo messe in rete con le madri dei migranti scomparsi, con le madri detenute e con i figlioletti in prigione, unite contro la tortura che la polizia pratica in carcere o denunciando la iniqua applicazione della giustizia in Italia: per esempio i 10 anni di carcere a un giovane per una vetrina rotta durante il G8 di Genova del 2001, e l’assoluzione per i poliziotti che assassinano i giovani per strada. Così la classe politica difende i suoi interessi e schiaccia la speranza di un paese migliore.
Anche qui in Messico, abbiamo avuto l’onore e il piacere di apprendere dalla lotta dei detenuti politici della Sexta in Chiapas, avendoli conosciuti nella prigione di San Cristobal e avendo fatto eco in Italia della richiesta di giustizia dei compagni de La Voz del Amate e, specialmente, lottando per la libertà di Rosa Lopez, dei Solidarios de la Voz del Amate, anche lei madre, indigena, lottatrice, membro onorario del nostro comitato.
Alcune di noi erano già militanti, altre erano totalmente lontane dalla politica perché la confondevano con quella dei partiti, però oggi siamo tutte unite, fortemente convinte che la lotta dal basso, fatta da gente comune, è l’unica arma per costruire una società dove le madri possano dedicarsi a crescere e amare i propri figli, senza piangerli per colpa di mani assassine.
Grazie.

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Lettera di Claudia Pinelli

13 dicembre 2014

Il freddo è intenso, oggi come 45 anni fa e non solo per il clima di questo mese di dicembre.
Eravate belli Pino. Volevate guardare il mondo con occhi nuovi, avevate speranze e voglia di fare, eravate convinti che l’impegno di ognuno avrebbe potuto creare una società più giusta, in cui i diritti di tutti sarebbero stati rispettati.
A quante manifestazioni hai partecipato, quante ne hai organizzate e gli scioperi della fame e i sit-in e le discussioni, a quante cariche della polizia sei scampato…quanto impegno nella tua vita, sempre dalla parte degli ultimi, con l’ottimismo e l’allegria con cui affrontavi la vita. Una vita povera, ma ricca del calore di affetti, di ideali, di compagni, di valori, di etica, di coerenza.
Faceva freddo a dicembre anche in quel 1969, tanto freddo.
E’ atroce entrare in una banca e morire per una bomba.
E’ atroce morire per mano di chi voleva coprire la matrice di quella bomba.
Il tuo precipitare nel cortile della questura, ci rimane squarcio nel cuore.
Sappiamo tanto ora, su quello che è avvenuto in piazza Fontana, delle trame fasciste, della manovalanza fascista di uno stato artefice e complice che ha tramato, ordito e depistato, assolto tutti non riuscendo a nascondere quanto marcio sia il sistema.
Per la tua morte solo frettolose archiviazioni, poche indagini, nessun processo. Lo stato non processa se stesso, nè allora, nè ora.
In questi anni ci sei sempre stato, presenza che ha scaldato i cuori di quanti ti hanno conosciuto e di chi ha fatto sua la tua storia, in questi anni ci sei sempre stato e hai permesso incontri, sguardi, condivisioni e ti ho ritrovato negli occhi di chi ancora resiste, di chi ancora continua a sperare in una società più giusta e più umana.
Molta strada è ancora da percorrere per poter guardare il mondo con occhi nuovi e forse più adesso che allora. Ma resisteremo a questa repressione, a questa mancanza di prospettive e lavoro, resisteremo a queste ondate di xenofobia e razzismo che non ci appartengono. E continueremo a proporre e a credere che un mondo nuovo basato sui valori che portavi avanti, è possibile.

Ciao Pino, ciao Pietro, ciao Saverio, non hanno vinto. Noi r-esistiamo.

Claudia

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12 dicembre Piazza Fontana: quarantacinque anni senza verità

Alle 16 e 37 di venerdì 12 dicembre 1969, un ordigno di elevata potenza esplose nel salone centrale della Banca nazionale dell’agricoltura, sede di Milano, in piazza Fontana. Il pavimento del salone fu squarciato e sedici persone restarono uccise, altre novanta circa furono ferite.
Qualche minuto prima della esplosione, un altro ordigno venne rinvenuto nella sede della Banca commerciale di piazza della Scala sempre a Milano. Tra le 16.55 e le 17.30, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca nazionale del lavoro di via San Basilio; altre due, sull’Altare della Patria di piazza Venezia.

A Piazza Fontana quel giorno muoiono:
Giovanni ARNOLDI, anni 42 commerciante
Giulio CHINA, anni 57 commerciante
Eugenio CORSINI, anni 71
Pietro DENDENA, anni 45, commerciante
Carlo GAIANI, anni 37, perito agrario
Calogero GALATIOTO, anni 71
Carlo GARAVAGLIA, anni 67, commerciante
Paolo GERLI, anni 73, imprenditore agricolo
Luigi MELONI, anni 57, commerciante
Gerolamo PAPETTI, anni 79, imprenditore agricolo
Mario PASI, anni 50
Carlo PEREGO, anni 74, pensionato
Oreste SANGALLI, anni 49, imprenditore agricolo
Angelo SCAGLIA, anni 61, imprenditore agricolo
Carlo SILVA, anni 71, rappresentante di commercio
Attilio VALÈ, anni 52, imprenditore agricolo
Giuseppe Pinelli, anni , operaio anarchico.Durante l’interrogatorio, tre giorni dopo il 15 dicembre 1969, “cade” dal piano della questura di Milano.
Vittorio MOCCHI, anni 47, imprenditore agricolo
Quel giorno si trovava lì anche Vittorio Mocchi, recatosi alla Banca per concludere l’acquisto di due trattori per l’azienda agricola di famiglia. Mocchi sopravvisse alla strage, ma morì, 14 anni dopo, il 15 ottobre 1983, a causa delle gravi ferite riportate.

Piazza Fontana: una testimonianza lunga quarant’anni
Intervista con Carlo Arnoldi, Francesca Dendena, Paolo Dendena, Fortunato Zinni
a cura di Francesco Barilli
Francesca e Paolo Dendena e Carlo Arnoldi sono i figli di Pietro Dendena e Giovanni
Arnoldi, morti nella strage.
Fortunato Zinni oggi è sindaco di Bresso (MI). Nel ’69 era assessore al bilancio dello
stesso Comune e funzionario della Banca nazionale dell’agricoltura. Fin dal giorno della
strage è fra i testimoni più attenti ed attivi della vicenda. Ha seguito con passione le
vicende processuali ed ha pubblicato Piazza Fontana: nessuno è Stato (Maingraf editore,
2007).
Fortunato, Francesca, Paolo, Carlo e gli altri familiari delle vittime sono oggi i depositari
della tragica memoria di piazza Fontana.
L’intervista si svolge a casa di Francesca, il 16 marzo 2009.

Franca, quando ti ho fatto leggere la prima bozza della sceneggiatura hai notato
una citazione dell’intervista che mi avevi concesso nel 2005, quel tuo sfogo
dove affermi «hanno vinto loro», e hai commentato: «dovevo essere proprio
demoralizzata, in quel periodo». Da qui è partito un parallelo con quanto
sostiene Licia Pinelli a Piero Scaramucci («io non mi sento sconfitta»).
Personalmente ti ho risposto che non vedo contrasti fra le due dichiarazioni,
mi sembrano le due facce della stessa verità, che comprende entrambe le
situazioni: una sconfitta “oggettiva” e un’affermazione di orgogliosa dignità
perché voi tutti, i parenti delle vittime come Licia e come – con un
coinvolgimento diverso ma non meno profondo – Zinni, avete combattuto
una battaglia di grande significato civile. Ragionandoci a mente più fredda
come ti senti di commentare la vostra condizione?

Francesca Dendena: Per risponderti devo partire da un aneddoto di quarant’anni fa,
quando andammo a recuperare la macchina di mio padre, morto nella strage. Già
allora incontrammo alcuni giornalisti e a me – forse per esuberanza giovanile –
venne spontaneo dire: «Mai più… Una cosa del genere non dovrà più succedere». E
io, dicevo a me stessa, avrei dovuto impegnarmi affinché un’esperienza così terribile
non dovesse capitare ad altri. Forse si trattava anche di un modo di ammortizzare il
dolore, ma questo lo dico adesso, col peso di quarant’anni trascorsi, e nemmeno
posso esserne sicura. Una cosa è certa: ci siamo buttati a capofitto in questa battaglia
da subito. Direi che in alcuni momenti questa istintiva voglia di combattere ci ha
salvati, ci ha fatto sopravvivere anche quando siamo stati costretti a girare l’Italia,
subendo lo spostamento del processo da Milano a Catanzaro: noi non ci siamo mai
fermati, anche se le difficoltà, non lo nascondo, erano enormi. E abbiamo
continuato a chiedere risposte, anche e soprattutto a quelle istituzioni da cui ci
sentivamo delusi. Devo dire che alcuni familiari di piazza Fontana rifuggono invece
ancora oggi dagli appuntamenti istituzionali. Sono persone che ritengono di evitare
appuntamenti con quelle strutture che reputano corresponsabili nella nostra tragedia.
Credo si tratti di un meccanismo di difesa, che personalmente non condivido, pur
essendo per molti versi comprensibile e rispettabile, giustificato da molte
circostanze. Insomma, non mi permetto certo di criticarlo, ma credo che se certi
risultati li abbiamo ottenuti lo dobbiamo proprio alla caparbietà di chi non si è mai
arreso, anche continuando a chiedere risposte alle istituzioni. Risultati incompleti,
certo, ma da non sottovalutare.
Tornando alla tua domanda, dirti se siamo “sconfitti” o “vincitori” non è semplice;
inoltre dipende da molti fattori, anche contrastanti. Forse bisognerebbe prima riflettere
su un’altra domanda, quella che rivolgeva a se stesso un operaio nel giorno dei funerali
(l’avrai visto senz’altro in immagini d’archivio, è ripreso sia ne La notte della Repubblica di
Sergio Zavoli che in Blu Notte di Carlo Lucarelli), ossia: «Perché? Perché una strage del
genere, a chi giova?».
Ancora oggi è difficile dare una risposta… In sintesi mi sento di dire questo: era una
stagione in cui gli operai, o, più in generale, la fascia “media” della popolazione, stavano
lottando per acquisire diritti e si cominciava a intravedere qualche risultato concreto
(penso ad esempio allo Statuto dei lavoratori, che arrivò a piena approvazione dopo
qualche mese), ma qualcuno voleva fermare quel percorso di crescita dei diritti. Tieni
conto, però, che su queste cose possiamo ragionare oggi, a tanti anni di distanza, mentre
allora una riflessione del genere non era così immediata. Inoltre non è nemmeno sicuro
che quel ciclo storico sia terminato. I tempi della Storia non sono quelli della vita umana,
e proprio la mancanza di chiarezza sulla stagione delle stragi fa pensare che le protezioni
e le connivenze verso i terroristi, insieme alla cappa di mistero che ancora grava su molti
episodi, siano dovute al fatto che certe forze sono ancora attive e influenti in Italia. Tra
l’altro, quando si parla di stragi si parla di fatti per molti versi analoghi e con “attori” in
comune, che si iscrivono sicuramente in un quadro generale, ma che si differenziano per
momenti politici comunque diversi, da piazza Fontana alla strage di Bologna del 1980.
Questa tua riflessione mi fa venire in mente un passaggio di Io so di Pasolini, che
sarebbe da approfondire. «Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi,
opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una
seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974)». Credo che la chiave di lettura
più corretta sia questa: la strage di Milano rientra in una strategia “attiva” da
parte delle organizzazioni neofasciste. Rappresenta cioè il “fare” qualcosa
nell’ottica di un obbiettivo da perseguire: provocare una svolta golpista o
comunque reazionaria in Italia. La strage di Brescia, invece, rientra in una
strategia “di risposta” da parte degli stessi neofascisti, che cercano di uscire dalla
marginalizzazione, di dimostrare la loro forza, la loro presenza e la loro
pericolosa vitalità. In un certo senso direi che le prime stragi sono un mezzo
indirizzato ad un dato fine (ossia: facilitare la svolta a destra del Paese); le
seconde rappresentano esse stesse – almeno parzialmente – il fine.
Fortunato Zinni: Sì, credo che le stragi che vanno dalla Banca dell’agricoltura a piazza
della Loggia, passando per quella alla Questura di Milano e per Peteano, sono
contraddistinte da una manovalanza e da una regia in gran parte comuni, ma si muovono
verso finalità diverse, e in questo senso ritengo che la ricostruzione più credibile l’abbia
sostanzialmente fornita il giudice Guido Salvini. Piazza Fontana è un attentato fatto per
spaventare il Paese, per favorire l’instaurazione di uno Stato d’emergenza, per annullare
le libertà costituzionali e il valore della Repubblica nata dalla Resistenza. Se questa svolta
reazionaria non è avvenuta dopo la bomba di piazza Fontana lo si deve alla grande civiltà
della risposta della popolazione, che fu evidente già il giorno dei funerali.
Io credo che nel fumetto sia difficile “raccontare la politica” di quegli anni, ma con le
immagini si può dire molto. Ad esempio, mi piacerebbe che nel vostro lavoro riusciste a
rappresentare il muro umano del 15 dicembre: ci sono fotografie bellissime di quel
giorno, primi piani di persone comuni raccolte in un silenzio doloroso e dignitoso, un
silenzio composto che diceva “non passerete”… Quella, a mio avviso, è stata una svolta
epocale per il Paese.
Penso che le persone che dovevano proclamare o appoggiare lo stato di emergenza (per
semplificazione possiamo individuare questi soggetti nella destra democristiana, ma la
cosa sarebbe ben più complessa) non abbiano avuto il coraggio di fare quel passo. È
proprio a quel punto che nei fascisti matura l’idea della ritorsione. È in quest’ottica che
va letto l’attentato del 17 maggio 1973 alla Questura di Milano. Quel giorno, primo
anniversario dell’uccisione del Commissario Calabresi, era presente proprio Mariano
Rumor (nel dicembre ’69 era il presidente del Consiglio). Rumor, per i motivi che dicevo
prima, non se l’era sentita di proclamare lo stato d’emergenza e favorire una svolta
reazionaria o golpista, e per questo era visto dai neofascisti come un traditore da punire.
Esiste un’ipotesi, che ovviamente andrebbe sottoposta a ulteriori verifiche e
approfondimenti, secondo cui per le stesse ragioni anche i carabinieri diventano a questo
punto oggetto di attentati (come a Peteano, il 31 maggio ’72): scontano il fatto di non
aver appoggiato il disegno eversivo dell’estrema destra. Seguendo questa versione pure la
strage di piazza della Loggia a Brescia può essere inquadrata nello stesso modo, anche se
meno palesemente (e dovremo vedere quali saranno gli esiti del processo attualmente in
corso). Come saprai, il 28 maggio ’74 forse l’obbiettivo dell’attentato di Brescia erano
proprio i carabinieri, che dovevano essere schierati sotto il portico dove è esplosa la
bomba. Solo la pioggia portò a spostare i militari da quella posizione, per garantire un
riparo ai manifestanti, che poi tragicamente morirono nell’attentato.
Insomma, dopo piazza Fontana i fascisti cambiano parzialmente obbiettivo e indirizzano
i loro crimini verso le istituzioni, nella misura in cui i fascisti stessi si sentono traditi.
Negli anni ancora successivi assistiamo alle stragi del Rapido 904 e della stazione di
Bologna, dove torna rilevante il coinvolgimento dei servizi segreti, perché questi
intendono riprendere quella strategia tesa a indebolire la crescita di consensi del
movimento operaio.
Fortunato, nel fumetto abbiamo scelto di fare introdurre a te, direttamente, la
scena dei funerali e i momenti immediatamente successivi all’esplosione. Mi
piacerebbe che in questa intervista quelle considerazioni, nel racconto solo
sintetizzate per esigenze sceniche, fossero ampliate, anche riguardo i giorni
seguenti l’attentato.
Fortunato Zinni: La mia storia è quella di un ragazzo del sud, reso orfano ed emigrante
da una guerra stupida e crudele. Io ho 11 anni più di Franca, all’epoca della strage lei
aveva 17 anni, io 28. Ero un giovane impiegato di banca, membro della commissione
interna, avevo già una mia formazione politica, maturata nelle lotte di quegli anni.
Ricordo che nei cortei partecipavo fianco a fianco a quegli operai che reclamavano più
diritti, non senza che questi dimostrassero diffidenza verso noi “colletti bianchi”. Loro ci
dicevano «dove andate con quello striscione dei bancari! Voi siete amici dei padroni!» e
cose del genere. Però alla fine anche quelle resistenze erano scemate e, ripeto, io mi ero
formato lì, a quella “scuola di vita”.
Mi chiedevi dei giorni successivi al 12 dicembre. Ti dirò che già quella sera arrivò la
percezione che tutto era cambiato, anche per me. Fu il direttore a prendermi da parte
dicendomi: «Da stasera la mia e la tua vita non saranno più quelle di prima. Innanzitutto
dobbiamo rimettere in piedi la banca, vedere come ristabilire la normalità». Non era
un’impresa da poco. Lavorammo il sabato e la domenica, e il 17 facemmo un’assemblea,
per decidere come proseguire, come pianificare gli straordinari per tornare quanto prima
alle attività consuete.
In occasione di quell’assemblea, uno di noi disse che era giusto proseguire, ma non
avremmo dovuto tenere noi i soldi degli straordinari: dovevano essere utilizzati per
aiutare i figli delle vittime. L’accordo sulla proposta fu unanime, ma io proposi di
aggiungere alla lista dei beneficiari i figli di Pinelli. L’assemblea si spaccò; dev’essere stata
l’unica volta nella mia lunga vita lavorativa in cui finii in minoranza, e i figli di Pinelli
furono esclusi. Pure questa fu una delle tante conseguenze amare della sciagurata
campagna di stampa condotta contro gli anarchici e la sinistra, nel tentativo di addebitare
loro la strage.
Quell’episodio lo considero una macchia nel nostro impegno, ma devo dire che in
seguito anche chi votò contro quella proposta si rese conto di essere in errore. E il
nostro impegno, comunque, proseguì negli anni: erano i lavoratori principalmente, con le
loro collette, a pagare avvocati come Pecorella (che poi trent’anni dopo finì col diventare
difensore di Delfo Zorzi, uno degli ordinovisti imputati per la strage…), non erano certo
i partiti, totalmente assenti (purtroppo anche quelli di sinistra).
Su questo aspetto le cose hanno poi avuto un’evoluzione, nel corso del tempo?
Fortunato Zinni: I parenti sono sempre stati soli. Sono stati aiutati dal Comitato
permanente antifascista, da qualche avvocato. Sì, qualche aiuto da personalità politiche è
arrivato, ma furono casi isolati e sporadici. Penso, per fare un nome, ad Aldo Aniasi. Il
vento è cambiato davvero solo dopo la sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005, con
la scandalosa decisione di addebitare le spese processuali alle parti civili. Tecnicamente si
trattava di una decisione legittima, ma, dopo 36 anni, quella scelta, unita alla
constatazione che la Giustizia si arrendeva di fronte all’impossibilità di condannare i
responsabili materiali della strage, suonava come uno schiaffo.
Dopo quella sentenza, e ancor più dopo l’accorato appello alla città di Milano firmato dai
parenti delle vittime, le cose sono cambiate. Perché il non aver accertato i colpevoli di 17
morti innocenti e 84 feriti, e quella decisione circa le spese processuali, erano cose che
ferivano e umiliavano non solo le vittime, ma tutta Milano e l’intero Paese. E soprattutto
c’era la ferma volontà, da parte nostra, di non lasciar cadere nel dimenticatoio la strage,
dopo che la Giustizia aveva certificato la sua impotenza (seppure riconoscendo, è giusto
ricordarlo, la matrice della strage, ascrivibile alla destra eversiva e neofascista).
Anche per me quel momento si è trasformato in uno spartiacque. Pure il mio libro sono
riuscito a scriverlo sull’onda di quell’indignazione: negli anni avevo già preso in mano
quegli appunti non so quante volte, ma solo dopo il 2005 sono riuscito a dare
concretezza al progetto. E quest’anno sono stato chiamato a raccontare la storia di
piazza Fontana in 16 licei, trovando sempre nei ragazzi attenzione, interessamento,
partecipazione. Perché la memoria è importante, e comincia proprio lì, nelle scuole.
Su Piazza Fontana esistono molti elementi che possono provocare indignazione,
dalla mancata condanna dei colpevoli alla questione delle spese processuali.
Oltre a questi temi principali, c’è qualche particolare che ancora oggi, a
quarant’anni di distanza, ti indigna?
Fortunato Zinni: A parte le tematiche cui accennavi, credo che la cosa più scandalosa
sia stata la dislocazione del processo dalla sua sede naturale, da Milano a Catanzaro e poi
a Bari. Specie perché si trattò di uno spostamento deciso dalla Cassazione, cioè uno dei
massimi organi dello Stato. Fu una decisione che, come ha accennato prima Franca,
costrinse i parenti a fatiche enormi. Ed è intollerabile che una scelta del genere – che
oggettivamente ostacolava e rallentava il normale svolgimento del processo – sia stata
compiuta volontariamente dallo Stato. Nessuno, nel mondo politico o nell’informazione,
si indignò davvero per quel provvedimento, che ancora oggi grida vendetta… È così che
si è allontanata la verità. Poi non c’è da sorprendersi se c’è chi pensa che la strage di
piazza Fontana sia un crimine delle Brigate rosse o se, in generale, c’è così tanta
confusione nella memoria storica di questo Paese.
Paolo Dendena: A questo proposito ricordo un particolare del trentesimo anniversario.
Era stata organizzata una mostra sulla strage, al Liceo di Lodi frequentato da mia figlia.
Per combinazione un giorno mia moglie si trovò a guardare i cartelloni della mostra,
appesi lungo la scalinata della scuola, e sentiva i commenti degli studenti: nessuno era in
grado di fare un legame storico preciso. Nemmeno vedere menzionato il cognome
Dendena fra le vittime li aiutava, nessuno riusciva a stabilire un nesso con mia figlia. Si
tratta di un piccolo episodio, ma fa capire come la storia di Piazza Fontana sia
totalmente rimossa, nel Paese.
A proposito di rimozione, mi viene in mente un altro episodio. Nel 2005, dopo il
venticinquesimo anniversario della strage di Bologna, Ernesto Galli Della Loggia
stigmatizzò i fischi che la folla aveva riservato ai rappresentanti del Governo. Lo
storico scrisse che «a un certo punto il passato va accolto nella memoria per ciò
che è stato, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni», praticamente invitando
a consegnare la strage di Bologna ai misteri italiani, senza aver raggiunto una
completa chiarezza (ricordo che per quell’attentato sono stati condannati gli
esecutori materiali, ma l’Associazione delle vittime si batte da anni affinché sia
fatta luce anche sui mandanti e sugli ispiratori politici). Quello di Galli Della
Loggia mi sembra un atteggiamento sintomatico di quanto persino nel “grande
giornalismo” sia ormai affermata la cultura della rimozione.
Fortunato Zinni: Sono d’accordo. Paolo Mieli, dopo la sentenza del maggio 2005,
sostenne per piazza Fontana più o meno le stesse cose: si dovevano accettare, a suo
avviso, i limiti della giustizia, ci si doveva rassegnare al fatto che la magistratura non
avesse accertato i colpevoli.
Credo però che il punto sia un altro. A fianco dei colpevoli materiali ci sono molti su cui
ricadono responsabilità morali che nessuno vuole riconoscere. Sulla nostra vicenda è
colpevole la magistratura (con nobili eccezioni), così pure la politica, e la stessa opinione
pubblica non ha mostrato la rabbia e l’indignazione che sarebbero state doverose. Anche
il mondo dell’informazione è stato distratto, sempre con lodevoli eccezioni (Zavoli,
Lucarelli e pochi altri). Insomma, abbiamo avuto un ceto politico imbelle e complice,
una magistratura che ha inizialmente guidato il processo verso la negazione della verità,
una stampa adagiata sulle veline dei servizi segreti e del potere politico, e un’opinione
pubblica che assolvo solo per la fiammata d’orgoglio dei funerali del 15 dicembre. E
meno male che ci fu quello scatto d’orgoglio, perché altrimenti ci saremmo svegliati la
mattina successiva coi colonnelli in casa…
In altre parole mi sembra limitato il discorso fatto da Mieli o da Galli Della Loggia. È
chiaro, la giustizia umana non è infallibile, si può e si deve accettare una sua sconfitta.
Ma su piazza Fontana non è accaduto questo, non si è trattato di mancanze “tecniche” o
oggettive: per la strage del 12 dicembre abbiamo visto gente condannata all’ergastolo
fatta scappare, per di più con l’aiuto dei servizi segreti! Se fallimento c’è stato, si è
trattato di un fallimento voluto e cercato ad alti livelli. Chiedere oggi di accettare la
mancata giustizia come un semplice dato di fatto cui ci si deve rassegnare mi sembra
davvero assurdo.
Carlo Arnoldi: Aggiungerei una cosa. Nel 2005 sono stati definitivamente accertati due
colpevoli, Freda e Ventura, ma questi non sono più perseguibili in quanto assolti in un
altro processo. Come si può accettare tutto questo?
Tu all’inizio chiedevi se ci sentiamo sconfitti o no. Per quanto mi riguarda posso dirti
che non mi sento sconfitto. C’è solo tanta rabbia. Anzi, dal 2005 la rabbia è aumentata.
Quella sentenza paradossalmente ci ha dato più forza, più voglia di andare avanti.
No, direi proprio che non si può parlare di una storia chiusa. Non è accettabile per noi (e
non deve esserlo per il Paese) considerare chiusa la vicenda solo perché il tribunale ha
emesso una sentenza del genere: piazza Fontana non finisce con il giudizio del tribunale.
Carlo, per te cosa significa ricordare il giorno della strage?
Carlo Arnoldi: Quel 12 dicembre mio padre non doveva andare a Milano. C’era una
fitta nebbia e non si sentiva bene, quindi aveva rimandato i suoi appuntamenti al venerdì
successivo.
Verso le 15 mia madre ricevette una telefonata di un agricoltore di Lodi. Cercava mio
padre e lo invitava alla banca di piazza Fontana: c’era da chiudere un affare per la vendita
di una cascina nel milanese e la sua presenza era necessaria (lui conosceva bene tutta la
trattativa). Mio padre cercò di rimandare, ma l’agricoltore insistette. Alla fine accettò di
malavoglia, salutò mia madre e si diresse a Milano. Per mia madre fu l’ultima volta che lo
vide vivo.
Arrivò a Milano, parcheggiò la macchina a Porta Ticinese (la ritrovammo dopo circa un
mese) e con i mezzi si diresse in piazza Fontana, dove giunse verso le 16,30. Davanti
all’entrata della Banca nazionale dell’agricoltura incontrò un altro agricoltore di
Magherno, il signor Morstabilini (rimasto poi ferito nell’attentato). Mio padre gli chiese
se aveva visto l’agricoltore di Lodi e, quando il Morstabilini gli rispose negativamente, lo
salutò ed entrò nel salone della Banca. Dopo pochi minuti avvenne lo scoppio della
bomba. Mio padre morì dopo circa mezzora, all’ospedale milanese Fatebenefratelli.
Quando avete saputo della tragedia?
Carlo Arnoldi: Verso le 19,30, tramite il medico di famiglia, avvertito a sua volta dalla
Questura di Milano. Ci raccontò di avere appreso dai carabinieri di una caldaia scoppiata
in banca (in quel momento era quella la versione che circolava…) e che mio padre era tra
i feriti. Ci disse di andare subito a Milano. Mia madre non aveva la patente: chiamò suo
fratello Sergio a Milano e gli chiese disperatamente di andare a verificare cosa fosse
realmente successo in piazza Fontana.
Mio zio, dopo aver girato diversi ospedali, arrivò al Fatebenefratelli. Qui non riuscì a
riconoscere mio padre immediatamente. Poi, convinto dal personale dell’ospedale, tornò
sui suoi passi e scoprì l’orribile verità grazie alle scarpe, che avevano comprato qualche
tempo prima insieme. Ci chiamò al telefono verso le 21 per darci la notizia…
Tutto quello che avvenne dopo è un incubo continuo. Il riconoscimento il giorno
successivo, i funerali in piazza Duomo, con quella atmosfera grigia e cupa ma
soprattutto silenziosa che non dimenticherò mai. Poi, nel pomeriggio, i funerali al nostro
paese a Magherno, con tutto il paese partecipe al nostro dolore.
Da quel giorno la mia vita e la vita di tutta la mia famiglia è cambiata. Ci siamo trovati
(proprio come aveva fatto lui a 15 anni, dopo la morte di suo padre) ad affrontare
difficoltà enormi, ma grazie all’abnegazione di mia mamma, che non ringrazierò mai
abbastanza, oggi siamo ancora qui a vivere e lottare. Non solo per lui, ma anche per fare
avere ai nostri figli e alle future generazioni le verità storiche che i tanti processi non
sono riusciti a darci in modo definitivo.
Volevo tornare a quella volontà di “andare avanti” di cui ha parlato Carlo. Dopo
che la magistratura ha scritto la parola finale – per quanto di sua competenza e
con i limiti e le critiche che possono essere espressi sul suo operato – sentite
ancora un compito sulle vostre spalle? A questo proposito volevo parlare anche
degli obbiettivi che si prefigge la vostra associazione.
Francesca Dendena: Noi facciamo parte della Unione familiari vittime per stragi, che
raccoglie al suo interno i familiari delle vittime di piazza Fontana, piazza della Loggia,
treno Italicus, rapido 904, via Georgofili e stazione di Bologna. Ma recentemente ci
siamo costituiti formalmente anche in un’associazione nostra: Piazza Fontana 12
dicembre 1969. Centro studi e iniziative sulle stragi politiche degli anni ’70. Abbiamo
deciso che dopo la sentenza questo sarà il nostro compito: continuare a raccontare la
storia del 12 dicembre, innanzitutto nelle scuole, come accennava Zinni. Tutto questo
per far sì che nulla di questa vicenda venga distorto, per far sì che non ci sia più nessuno
che dimentichi che questo è stato un Paese dove le stragi di cittadini innocenti sono state
un mezzo usato per indirizzare la politica. Abbiamo deciso di farlo solo ora, e può
sembrare strano, a quarant’anni dai fatti. In realtà abbiamo pensato che questo può
essere lo strumento più adatto per proseguire nel nostro compito, che è anche una sorta
di passaggio del testimone della memoria alle prossime generazioni.
Tornando invece al lato penale, volevo accennare al nuovo processo per la strage
di Brescia. Con che spirito e quali attese lo seguite? Sia per Brescia, intendo, che
per i riflessi che eventualmente potrebbero emergere sulla vostra vicenda.
Paolo Dendena: Sì, effettivamente c’è la speranza che da quel processo, dove sono
presenti tra gli imputati alcuni soggetti che sono stati coinvolti, a vario titolo, anche per
piazza Fontana, possa uscire qualcosa di nuovo. Ma onestamente mi sembra
un’eventualità molto remota.
Quello su piazza della Loggia sarà, comunque vada, il processo finale sulla stagione delle
stragi italiane, per cui lo seguiamo con grande interesse, anche se l’informazione
purtroppo non ne parla per niente (e questo mi sembra grave).
È chiaro, come ti dicevo, che per noi è naturale sperare che dal tribunale di Brescia esca
qualche fatto nuovo pure per la strage di Milano. Alle udienze non siamo ancora andati.
Ci siamo sentiti con Manlio Milani (presidente dell’Associazione dei caduti di piazza della
Loggia), gli siamo vicini e gli esprimiamo solidarietà, ma dopo quarant’anni di questa
giustizia confesso che la fiducia razionale è pochissima.
Ci sono cose in particolare che vorreste chiedere per il prossimo 12 dicembre?
Fortunato Zinni: Il quarantesimo anniversario è importantissimo, anche
simbolicamente. Io vorrei che venisse il presidente della Repubblica a Milano, come
massimo rappresentante di quelle istituzioni che ci hanno deluso. E vorrei che lo facesse
non tanto per chiedere scusa, ma per dimostrare una reale vicinanza dello Stato alle
vittime, un reale cambio di registro rispetto ai quarant’anni trascorsi. Credo che
proveremo a muoverci in questo senso assieme alle associazioni dei familiari delle altre
stragi, per chiedere al capo dello Stato questo gesto.
Vedi, il punto non è decidere se sia o meno il caso di mettere una pietra sopra la strage.
Quella, purtroppo, c’è già… Il punto è riconoscere che tutte le istituzioni sono state
assenti – e in molti casi ben peggio che assenti – e questo riconoscimento deve avvenire
dalla più alta carica dello Stato. Forse, se così fosse, potremmo dire davvero che qualcosa
è cambiato. (da http://www.memoria.san.beniculturali.it)

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Caro Nikos, siamo con te. Resisti. Non regalargli la tua vita. E’ quello che vogliono. Possono cancellarla un attimo dopo. Non temono la tua morte. Temono che tu resti in vita a testimoniare. Resisti, Nikos

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