Noi siamo tutte JoY, Hellen , Nabruka

CONTRO LA VIOLENZA SESSISTA E RAZZISTA, NOI SIAMO TUTTE CON JOY E HELLEN!

Nella tua città c’è un lager. Alle porte di Roma, tra il Parco Leonardo
e la Fiera di Roma, c’è il centro di identificazione ed espulsione
(Cie, ex Cpt) di Ponte Galeria, dove vengono rinchiuse, in condizioni
disumane, le persone immigrate prive di documenti o che hanno perso il
lavoro. Con l’approvazione del “pacchetto sicurezza” e il prolungamento
della detenzione fino a sei mesi, lo stato vorrebbe privare le persone
immigrate di ogni dignità e costringerle a vivere in un regime di
violenza quotidiana e legalizzata. Nel corso dell’estate, sono
scoppiate numerose rivolte, da Lampedusa a Gradisca. Noi ci sentiamo
vicine e vogliamo sostenere le lotte delle recluse e dei reclusi contro
questi “lager della democrazia”. In particolare vogliamo farvi
conoscere la forza e l’autodeterminazione di Joy.

Martedì 13 ottobre si è chiuso il processo di primo grado contro i
reclusi e le recluse accusate dalla Croce Rossa di aver dato vita, ad
agosto, alla rivolta contro l’approvazione del pacchetto sicurezza nel
Cie di via Corelli a Milano. Nel corso del processo una di queste
donne, Joy, ha denunciato in aula di aver subito un tentativo di stupro
da parte dell’ispettore-capo di polizia Vittorio Addesso e di essersi
salvata solo grazie all’aiuto della sua compagna di cella, Hellen.
Inoltre, entrambe hanno raccontato che, durante la rivolta, con altre
recluse, sono state trascinate seminude in una stanza senza telecamere,
ammanettate e fatte inginocchiare, per essere poi picchiate
selvaggiamente prima di essere portate in carcere. Dopo essere state
condannate a sei mesi di carcere per la rivolta, ora Joy e Hellen
rischiano un processo per calunnia, per aver denunciato la violenza
subita.

Sappiamo bene che questo non è un caso isolato: i ricatti sessuali, le
molestie, le violenze e gli stupri sono una realtà che le donne
migranti subiscono quotidianamente nei Cie, ma le loro voci sono
ridotte al silenzio perché i guardiani, protetti dalla complicità della
croce rossa, in quanto rappresentanti dell’istituzione, si sentono
liberi di abusare delle recluse.
Sappiamo bene quanto sia aggravante essere prigioniera e donna: la
violenza che si consuma nei luoghi di detenzione ad opera dei
carcerieri, che viene sistematicamente occultata, si manifesta anche e
soprattutto attraverso forme di violenza sessuale sulle prigioniere
donne: perchè la violenza maschile sulle donne è un fatto culturale, e
si basa sulla sopraffazione che sfocia nell’abuso del corpo e
nell’offesa della mente.

Per questo pensiamo che sia importante sostenere Joy e Hellen, assieme
a tutte le migranti che hanno avuto – e che avranno in futuro – il
coraggio di ribellarsi ai loro carcerieri.

Per questo il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza
sulle donne, assieme ad altre compagne femministe e lesbiche che si
stanno mobilitando in diverse città, saremo a Ponte Galeria. Per
affermare che noi non vogliamo essere complici, né delle campagne
mediatiche costruite sull’equazione razzista “clandestino uguale
stupratore”, né delle leggi razziste, securitarie e repressive varate
in nostro nome; per gridare che tutti i centri di detenzione per
migranti devono essere chiusi; per dire che rifiutiamo ogni forma di
controllo e ogni tentativo di usare i nostri corpi per giustificare gli
stereotipi e le violenze razziste e sessiste.

Ma soprattutto saremo lì per esprimere la nostra solidarietà a tutte le
recluse e i reclusi nei Cie e per far sentire a Joy e Hellen che non
sono sole, che il loro gesto rappresenta un atto estremamente
significativo di resistenza e di autodeterminazione, che rovescia il
ruolo di vittima assegnato alle donne immigrate, dando forza a tutte le
lotte e i percorsi contro la violenza sulle donne, dentro e fuori dai
Cie.

http://noinonsiamocomplici.noblogs.org

 

PER NON DIMENTICARE NABRUKA

(maggio 2009)Nella notte, nel Cie di Ponte
Galeria è morta una detenuta tunisina. Si chiamava Nabruka Mimuni e
aveva 44 anni. Le hanno comunicato che sarebbe stata espulsa
e questa mattina le sue compagne di cella l’hanno trovata impiccata in
bagno. Da quel momento le recluse e i reclusi di Ponte Galeria sono in
sciopero della fame per protestare contro questa morte, contro le
condizioni disumane di detenzione, contro i maltrattamenti e contro i
rimpatri. Nabruka lascia un marito, e un figlio. Era in italia da più
di 20 anni. È stata catturata due settimane fa dalla polizia mentre era
in coda in Questura per rinnovare il permesso di soggiorno.

Vincenza scrive: "Mi
rifiuto di leggere la sua morte come un atto di disperazione, la
disperazione deve essere tutta nostra che non siamo riusciti ad
impedirlo. Quello di Nabruka è un gesto politico . Un gesto politico
che urla. E dobbiamo urlare anche noi (insieme a tutt* le/i migranti in
sciopero della fame e in rivolta nei centri di identificazione ed
espulsione), noi con i documenti in tasca e tutti i sacrosanti diritti
di "cittadina/o". Ma fuori, fuori di qui
".

Ha ragione. Anch’io mi rifiuto di
leggerlo come un atto di disperazione. Voglio pensare che sia un atto
di libertà. L’ultimo. E’ un gesto politico e tutti i commenti che si
possono leggere invece lo riducono ad uno stato di prostrazione di una
donnetta debole che si è arresa. Come se l’avessero uccisa due volte.

http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2009/05/08/nabruka-mimuni-morta-di-leggi-razziali 

 

 

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Ricordando ……Carlo, Dax, Marcello, Federico, Giuseppe, Renato, Riccardo, Aldo, Gabriele, Niki, Manuel, Stefano “Cabana”, Francesco, Stefano…

Ricordando  Carlo, Dax, Marcello,
Federico, Giuseppe, Renato, Riccardo, Aldo, Gabriele, Niki, Manuel,
Stefano "Cabana", Francesco, Stefano…


Noi
madri, orfane di stato perché lo Stato ha ucciso i nostri figli, ha
permesso che si facesse scempio della loro vita e della loro dignità.

Noi
madri, che abbiamo visto come si può mentire, depistare, nascondere o
mutilare le prove della violenza. Come si può sostenere impunemente che
la vittima è un delinquente mentre chi delinque viene descritto come
vittima.

Noi, che pure avendo le prove della
violenza da parte di alcuni settori dello Stato abbiamo visto come lo
Stato si auto assolve; come viene sospeso il diritto in piazza, in
carcere o nelle caserme; come si legittima l´impunibilità di chi veste
una divisa.

Noi che abbiamo dolorosamente toccato
con mano il legame che unisce chi predica l’intolleranza contro chi
appare debole o diverso, e chi la mette in pratica.

Noi
che abbiamo visto sul piatto della bilancia la vita dei nostri figli
pesare molto meno di un´automobile o una vetrina infranta.

Noi che davanti al corpo offeso dei nostri figli abbiamo detto "mai più", ogni volta e di nuovo, inutilmente.

Noi
testimoni, madri orfane dei nostri figli, chiediamo alle donne e agli
uomini che ancora credono nel valore del diritto e della giustizia di
testimoniare con noi, di unire le loro voci alle nostre per richiamare
l´opinione pubblica di fronte alle proprie responsabilità.


Haidi Giuliani
Rosa Piro
Patrizia Moretti
Maria Ciuffi

Stefania Zuccari

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Morire di Stato

Salutare
un figlio. Rivederlo morto.

E’
il dramma di Maria, madre di Marcello Lonzi, morto nel carcere di Livorno nel
2003.

E’
il dramma di Patrizia, madre di Federico Aldovrandi, ucciso da quattro poliziotti
durante un fermo.

E’
il dramma di Ornella madre di Nike Aprile Gatti, morto nel carcere di
Sollicciano (Firenze),

E’
il dramma di Maria, madre di Manuel Eliantonio,morto nel carcere di Marassi a
22 anni.

E’
il dramma della mamma di Stefano Cucchi, morto in carcere a Roma dopo un
arresto per pochi grammi di droga.

E’
il dramma di Rosa, madre di Giuseppe Saladino, morto a Parma dopo solo 15 ore di
carcere.

Uno
stato che sottrae un figlio e  lo
restituisce morto, negando ogni possibilità di avvicinarlo, di esercitare il
diritto di ogni madre di constatare la salute e le condizioni del proprio
figlio, anche di chi  si trovi in
carcere.

 

In
ricordo di Renato, accoltellato per odio e intolleranza nel 2006,  le Madri per Roma Città Aperta vogliono
interrogarsi su questi eventi, su queste maternità negate che calpestano i  diritti dell’individuo e  rappresentano un gravissimo segnale di  deriva della nostra democrazia.

Anche
queste morti appartengono al tema della sicurezza. Sicurezza anche dei
cittadini quando hanno a che fare con le istituzioni  repressive e carcerarie.

Per
questo come madri non vogliamo dimenticare Nabruka Mimuni, la donna che si è tolta
la vita nella notte tra il 6 e il 7 maggio di quest’anno nel lager di Ponte
Galeria, alle porte di Roma.

Abbiamo
contestato ai vari sindaci  la risposta
xenofoba e repressiva delle istituzioni a fenomeni di grave disagio e
precarietà, che ha alimentato episodi di razzismo e violenza, opponendo,
praticando  e sostenendo la cultura della
diversità e del rispetto.

Vogliamo  affrontare  il tema della sicurezza portandolo anche
dietro le mura di un carcere o  di un
CIE. Vogliamo riproporre il tema dei diritti dentro la città  e soprattutto nei luoghi dove sembra che
rappresentanti dello Stato possano esercitare un diritto di vita e di morte su
cittadini italiani e stranieri.

 

Come
le madri argentine di Plaza de Majo, le madri cinesi di Piazza Tien a men e le
madri iraniane hanno chiesto giustizia e verità per i loro figli, le Madri per
Roma Città Aperta vogliono sostenere e dar voce ad ogni madre che voglia rivendicare
la dignità e i diritti dei suoi figli strappati alla vita.

 
Comitato Madri per Roma Città Aperta

madrixromacittaperta@libero.it

 
Sabato
14 novembre ad Acrobax (ex Cinodromo)

Ponte Marconi
ore 17,30

 
Incontro con
avvocati, operatori del carcere, associazioni

Cena per sostenere la
famiglia di Manuel Eliantonio

 

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Per non dimenticare, contro ogni razzismo, contro ogni mafia

Cristiano Aldegani, sindaco leghista di
Ponteranica 
ha deciso che la biblioteca comunale non sarà più
dedicata a Peppino Impastato, il giovane siciliano ucciso dalla mafia
nel 1978 e ha fatto rimuovere la targa in sua memoria.

Noi Madri vogliamo conservare la memoria di chi ha lottato contro la mafia e di sua madre Ferlicia Bartolotta che per ,  ventisei anni ha lottato  in memoria di suo figlio continuando a chiedere che giustizia venisse fatta e opponendosi con tutte le sue forze alla
logica che lo voleva prima un terrorista e poi un balordo sognatore.
Felicia ci ha lasciato un’eredita’ pesante e difficile che noi vogliamo raccogliere: il coraggio di lottare, la
forza per non arrendersi e la memoria da non perdere.

Peppino Impastato
La verità uccisa due volte

Trent’anni fa l’omicidio del giovane di Cinisi commissionato dal boss Badalamenti

di Enrico Bellavia

Era un destino segnato quello di Peppino Impastato. Era nato a
Cinisi in una famiglia di mafia. Il marito di sua zia, Cesare
Manzella, era un boss di prima grandezza nel firmamento delle
coppole. Suo padre, Luigi, aveva un amico che era il numero uno di
Cosa nostra, Tano Badalamenti. Ma Peppino "il ribelle", militante
di una sinistra che si componeva e si divideva, alimentando una
galassia di sigle, partiti e movimenti, cambiò la sua sorte. E Tano
Badalamenti diventò il mandante del suo assassinio.

La fine di Peppino, morto a 30 anni, il 9 maggio del 1978, 5 giorni
prima della sua elezione a consigliere comunale di Cinisi nelle
liste di Democrazia proletaria, impresse una decisa sterzata al
corso della vita di chi gli sopravvisse. Di sua madre, Felicia
Bartolotta e di suo fratello Giovanni, come di sua cognata
Felicetta. Diventarono i custodi della sua memoria e insieme con
Salvo Vitale e Umberto Santino, il fondatore del centro di
documentazione antimafia, gli implacabili cacciatori di una verità
evidente che in pochi intendevano riconoscere. Gli accusatori dei
«Notissimi ignoti». Badalamenti, in primo luogo, il cui nome era
stato indicato già dal palco nel primo comizio, tenuto due giorni
dopo la scoperta del cadavere.

Ci sono voluti 23 anni perché Peppino Impastato diventasse con
bollo di giustizia un morto di mafia. E quell´omicidio un delitto
contro la parola. L´assassinio di un giornalista postumo. Perché
Peppino fu iscritto all´albo professionale, quando finalmente
Badalamenti, nel 1997, fu incriminato. Parlava Peppino. Parlava
tanto in una Cinisi muta, sorda e cieca.

Parlava dai palchi improvvisati sui quali rappresentava il suo
impegno. Si faceva ascoltare dai microfoni di Radio Aut. Grazie a
Salvo Vitale e Guido Orlando è possibile riascoltare la sua voce
nelle otto trasmissioni riprodotte nel dvd "Onda Pazza" appena
uscito per Nuovi Equilibri con prefazione di Vauro.


Peppino mostrava cosa stavano facendo del suo paese, con
l´aeroporto in ampliamento, l´America dei cugini d´oltreoceano
sempre più vicina, la droga a fiumi e la speculazione dei signori
del cemento alle porte. Faceva nomi e cognomi. Di mafiosi e di
politici. Che andavano a braccetto e si facevano fotografare
insieme.

Tano Badalamenti, l´11 aprile 2002, fu condannato all´ergastolo per
quel delitto ma il 30 aprile 2004, a 80 anni, morì nel centro
medico penitenziario Devens Fmc, ad Ayer (Massachusetts): scontava
45 anni per un colossale traffico di droga sulla rotta aerea
Usa-Sicilia. Il 5 marzo 2001, Vito Palazzolo, braccio destro di
Badalamenti, anche lui amico degli Impastato, aveva rimediato
trent´anni.

Felicia Bartolotta lo incrociò nel primo giorno del primo processo.
Lo guardò dritto negli occhi e lo costrinse ad abbassare lo
sguardo. Gli sibilò con rabbia: «Vergognati».
Il 18 novembre del 1994 il collaboratore di giustizia Salvatore
Palazzolo aveva messo a verbale: «Secondo quanto ho appreso dal
vice rappresentante della nostra famiglia, Vito Palazzolo,
l´omicidio è stato voluto da Gaetano Badalamenti ed eseguito da
Francesco Di Trapani e Nino Badalamenti (entrambi morti, ndr)».
Tano Badalamenti decise il delitto, onorando a suo modo un patto
con Luigi Impastato, il padre di Peppino. Ordinò di liquidare il
ragazzo solo quando Luigi, di ritorno da un viaggio in Usa, morì in
un misterioso incidente stradale, sul quale, manco a dirlo, non si
indagò. Era andato negli Usa a perorare l´intercessione di qualche
mammasantissima per avere salva la vita del figlio.

Dopo due archiviazioni (nel 1984 e nel 1992), nell´aprile del 1995,
l´indagine era stata riaperta. La famiglia, parte civile con
l´avvocato Vincenzo Gervasi. Palazzolo fu il primo a essere
condannato. Felicia Bartolotta aveva 85 anni. «Ora – disse – tutti
sanno qual è la verità. Ora aspetto la condanna di Badalamenti e
poi posso anche morire». Morì il 10 dicembre 2004 a 88 anni.
Ripeteva: «Anche gli insetti se lo sono mangiati mio figlio. Che ci
vado a fare al cimitero? Lì non c´è. Solo un sacchetto, questo mi
hanno lasciato». Qualche anno prima l´avevano ricoverata in coma.
Scoprirono che aveva due ematomi alla testa.

Spiegò: «Mi mettevo davanti alla foto di Peppino e mi davo pugni in
testa fino a stonarmi».

Peppino lo fecero a pezzi sui binari della ferrovia di Cinisi nella
notte tra l´8 e il 9 maggio del 1978. Lo misero sulle rotaie quando
era già stordito, adagiarono il corpo su una carica di tritolo e
fecero brillare l´esplosivo. Poi, per 23 anni, provarono a
seppellirne il ricordo sotto una montagna di falsi e calunnie per
una ricostruzione di comodo che lo voleva alternativamente suicida
o saltato per aria maneggiando l´esplosivo. Trenta chili di resti
su 300 metri.

La notizia della sua morte giunse nel giorno del ritrovamento del
cadavere di Aldo Moro. Nel cono d´ombra di una tragedia nazionale
la fine di Peppino era una nota a margine in un´Italia squassata
dal terrorismo. Non per chi quel ragazzo esile ma dotato di
un´energia contagiosa aveva conosciuto. Erano stati lì gli amici di
Peppino. Erano alla ferrovia a tentare di avvicinarsi alla scena
del delitto. I carabinieri, coordinava il maggiore, futuro
generale, Antonio Subranni, tenevano a distanza solo loro. Poi
andarono a perquisirgli le case. Nell´appartamento della zia, Fara
Bartolotta, dove Peppino viveva, trovarono anche un frammento di
diario. Era del novembre del 1977. C´era l´amarezza di un attivista
che non conosceva il limite tra privato e politico. Bastò quella
lettera per la tesi del suicidio.
«Era tutto pianificato», raccontò all´Antimafia l´allora
commissario della Digos, Alfonso Vella, arrivato a Cinisi quando i
carabinieri stavano già smobilitando.

C´era da stabilire l´ora in cui Impastato era ancora vivo su quei
binari. Sarebbe stato interessante sentire la casellante di turno
fino alle 22 dell´8 maggio del 1978. Si chiamava Provvidenza
Vitale. Nessuno la cercò. E c´era la «lettera d´addio» trovata da
Carmelo Canale, aggregato a Cinisi in quei giorni in una stazione
che aveva una unità in sovrannumero. Il necroforo comunale però si
ricordava di un brigadiere che gli disse di cercare una chiave tra
i cespugli. Liborio, così veniva chiamato, di chiavi ne trovò tre
ma non andavano bene. Il brigadiere gli disse di cercare ancora,
poi quella chiave la trovò lui. Apriva Radio Aut. Era proprio
quella che Impastato teneva sempre nella tasca dei pantaloni. Non
era né annerita, né piegata dall´esplosione. Scherzi di un ordigno
che risparmia anche gli occhiali della vittima e ne dilania il
cranio.

L´esplosivo era esplosivo da cava. Non fu esaminato. E non furono
rilevate impronte sulla macchina di Impastato. Contro ogni evidenza
era suicidio o attentato. Tutto, fuorché mafia. Tutto contro gli
indizi che invece gli amici di Peppino, con gli avvocati Turi
Lombardo e Michelangelo Di Napoli, avevano raccolto. Trovarono, ad
esempio, una pietra rossa insanguinata nel casotto di fianco ai
binari della ferrovia. Fu lì che gli assassini colpirono Peppino.

«Era sangue mestruale», tagliarono corto i carabinieri. Era sangue
zero negativo, gruppo raro, lo stesso di quello di Peppino accertò
Ideale Del Carpio. E sangue dello stesso gruppo trovarono i periti
Caruso e Procaccianti su una pietra di quel rudere. Ma la casa non
c´è neppure nello scarno fascicolo fotografico rimasto agli atti.

Il compendio di quel che accadde sta in un libro di Umberto Santino
che non a caso si intitola "L´assassinio e il depistaggio".

Felicia Bartolotta raccontò la sua storia in un libro di Umberto
Santino e Anna Puglisi, dal titolo "La mafia in casa mia".

La sua diventò una sorta di museo. E quando con il film "I Cento
passi" di Marco Tullio Giordana la storia di Peppino diventò
conosciuta al grande pubblico, le visite si moltiplicarono. «State
attenti, occhi aperti, il futuro siete voi», ripeteva a tutti
Felicia.

(09 maggio 2008)
 
PALERMO – E’ morta Felicia Bartolotta, la madre di Peppino Impastato,
il militante di Democrazia Proletaria ucciso su ordine del boss di
Cinisi Tano Badalamenti. Felicia Bartolotta, 88 anni, è morta nella sua
casa di Cinisi. Stamattina la donna ha avuto un attacco di asma di cui
soffriva da circa tre anni. In casa a vegliare la salma vi è il figlio
Giovanni Impastato, fratello di Peppino, familiari e amici.

«E’ il primo compleanno che vivo con la pace nel cuore». Era il 24
maggio del 2002 e Felicia Bartolotta, madre di Peppino il militante di
Dp assassinato da Cosa nostra nel ’78 fa a Cinisi, festeggiava con l’
altro figlio Giovanni, parenti e amici il suo 86/o compleanno. Un mese
prima, l’ 11 aprile, la Corte d’ Assise di Palermo aveva condannato
all’ ergastolo il boss Tano Badalamenti per l’ omicidio di Peppino, il
cui cadavere fu trovato lungo i binari ferroviari.

Per Felicia Bartolotta quel compleanno in famiglia era diverso dagli
altri, perchè dopo 24 anni dalla morte del suo primogenito, finalmente
la giustizia aveva fatto il suo corso, condannando «Tano seduto». Era
questo il nome con cui Peppino Impastato chiamava il padrino di Cinisi
Tano Badalamenti dai microfoni di «Radio out», fondata proprio dal
militante di Dp per denunciare le collusioni tra politica e mafia.
Schiva ma dal carattere deciso, Felicia Bartolotta difese fino all’
ultimo le scelte di Peppino contro la prepotenza dei mafiosi e l’
indifferenza e l’ omertà della gente di Cinisi, soggiogata da
Badalamenti.

Era una donna che per anni si è battuta nel nome del figlio, per
ribaltare la «verità di comodo» che voleva Peppino Impastato morto
mentre stava compiendo un atto terrorista sistemando una bomba sui
binari della linea ferrata. Dopo la morte del figlio Felicia Bartolotta
ha ricordato, durante dibattiti, in televisione, in incontri pubblici
la figura e l’ impegno sociale di Peppino, quel figlio ‘ribellè che
andava a trovare nel garage dove abitò per qualche tempo, senza
nascondersi dagli occhi di Badalamenti, la cui abitazione distava
appena ‘cento passi’ dalla sua. Ma il tempo ha riservato altri dolori
alla madre di Peppino.

Gli attentati al negozio della nuora, la moglie dell’ altro figlio
Giovanni, e per ultimo la condanna dell’ altro figlio per diffamazione
al legale di Badalamenti. Giovanni Impastato è stato infatti condannato
a risarcire 2500 euro all’ avvocato Paolo Gullo che lo aveva querelato
perchè durante una puntata del Maurizio Costanzo show il fratello di
Peppino aveva definito, sia pur indirettamente «imbecille». Il centro
di documentazione intestato al militante di Dp aveva aperto un conto
corrente affinchè chiunque potesse dare un contributo per coprire le
spese. Alla fine il conto ha fatto registrare un saldo di 42 mila euro.
Le offerte sono giunte da tutta Italia: gente comune, operai,
casalinghe, anche giovani che avevano sentito il nome di Peppino
Impastato per la prima volta al cinema durante la proiezione del film
«Cento passi» che racconta la storia del giovane di Cinisi.

 
 
L’11 aprile del 2002 il Consiglio Comunale di Anzola dell’Emilia ha
conferito la Cittadinanza Onoraria a Felicia Bartolotta Impastato, mamma
di Peppino Impastato, giovane militante comunista ucciso dalla mafia a
Cinisi (Pa) il 9 maggio 1978 e fatto passare per terrorista e suicida.
Una significativa coincidenza ha voluto che proprio l’11 aprile del 2002 la
Corte d’Assise di Palermo, poche ore prima che si riunisse il Consiglio
Comunale, condannasse all’ergastolo il boss Gaetano Badalamenti, “Don
Tano Seduto” come lo chiamava, sbeffeggiandolo, Peppino dalla sua Radio
Aut, quale mandante dell’omicidio di Peppino.
Ecco la motivazione con la quale il Consiglio Comunale di Anzola ha
conferito la cittadinanza a Felicia Bartolotta Impastato.

"Per la sua storia di madre e di donna siciliana che con coraggio e
amore per la Libertà si è schierata dalla parte del figlio Peppino che, a
prezzo della propria vita, si è ribellato ad una società che non gli piaceva,
contro tutto il mondo nel quale si muoveva la sua famiglia.
Per la tenace e costante lotta che ha condotto nel tempo, insieme al
figlio Giovanni e ai compagni ed amici di Peppino, per avere Giustizia
dallo Stato Italiano, non cercando vendetta.
Perché la sua storia, la storia che la sua famiglia ha vissuto dal
1978 ad oggi, è una grande storia di Resistenza per la quale noi vi
dobbiamo un grande ringraziamento: il grazie che ogni cittadino onesto e
consapevole deve rendere a chi sacrifica la propria vita per la libertà e il
miglioramento del mondo che lo circonda
".


Per tali motivi le conferiamo questa cittadinanza onoraria, in
segno di affetto, riconoscenza e stima per il comportamento coerente che
ha saputo mantenere dopo la morte di Peppino, soprattutto in quanto
donna, particolare non secondario, in un contesto, più difficile di altri,
come quello siciliano di quegli anni.
Un grande esempio di Resistenza per tutti noi.

Ricordati di ricordare

coloro che caddero
lottando per costruire
un’altra storia
e un’altra terra

ricordali uno per uno
perché il silenzio
non chiuda per sempre
la bocca dei morti
e dove non è arrivata la giustizia
arrivi la memoria
e sia più forte
della polvere
e della complicità

Ricordati di ricordare
l’inverno dei Fasci
quando i figli dei contadini del Nord
spararono sui contadini del Sud
e i mafiosi aprivano il fuoco
sapendo di essere
i cecchini dello Stato

Ricordati di Emanuele
che fu accoltellato
dai sicari degli speculatori
e del trionfo degli assassini
nella città cannibale

Ricordati di ricordare
il sangue versato sulla terra
e le file lunghe degli emigranti
che portarono la Sicilia
sulle piazze del mondo
a svendersi
come merce a buon mercato

Ricordati di Luciano
Lorenzo Bernardino
Nicolò Giovanni
Sebastiano
Andrea Nunzio
Agostino Gaetano
Accursio
Giuseppe Vincenzo
Epifanio Placido

(e del bambino Giuseppe
che vide l’assassinio di Rizzotto
e il medico-capomafia Navarra
cancellò per sempre
la verità dei suoi occhi)

Calogero Filippo Carmelo
e di tutti gli altri
che hanno perduto
vita e nome

Ricordati di Margherita
Vincenzina Castrense
Filippo Francesco
Giorgio Giovanni Giuseppe
Serafino Vito
che confusero il loro sangue
con le ginestre
che sbocciavano
nel mattino di maggio

Ricordati di Salvatore
che morì abbracciato alla terra
della madre Francesca
che chiedeva giustizia
e trovò lo scherno degli assassini

Ricordati di Peppino
che infranse i comandamenti dei padri
sbeffeggiò il potere
ed esplose sui binari

Ricordati di Pio e Rosario
che erano comunisti
e lottavano contro la mafia
e per la pace

Ricordati di Pasquale
Piersanti Giuseppe
che cercarono di spezzare
il patto con il delitto

Ricordati di Mario
Pippo Mauro Beppe
che vedevano e parlavano
mentre gli altri tacevano
e non guardavano

Ricordati di Graziella
che ancora si chiede perché
della sua vita rubata

Ricordati di Claudio
che giocava con i suoi undici anni
e incontrò la morte
a un angolo di strada

Ricordati di Barbara
Giuseppe e Salvatore
che svanirono
nel lampo di Pizzolungo

Ricordati di Giuseppe
che sognava di volare
sul cavallo dell’alba
e trovò la notte
nelle mani del boia

Ricordati
di Mario Silvio Calogero
Pasquale Eugenio Mario Giorgio
di Filadelfio
di Boris
di Cesare e Lenin
di Domenico Giovanni Salvatore
di Emanuele
di Gaetano
di Vito
di Luigi Silvano Salvatore Giuseppe
di Carlo Alberto Emanuela Domenico
di Calogero
di Giangiacomo
di Mario Giuseppe Pietro
di Rocco Mario Salvatore Filippo
di Beppe
di Ninni e Roberto
di Natale
di Antonino e Stefano
di Ida e Antonino
e del loro figlio non nato
di Rosario e Giuliano
di Giovanni Francesca Antonio Rocco Vito
di Paolo Agostino Claudio Emanuela Vincenzo Walter
di Giuseppe
che servivano lo Stato
e trovarono la morte in agguato
e la solitudine alle spalle

Ricordati di Biagio e Giuditta
che attendono ancora la vita
al capolinea della morte

Ricordati di Libero
che non volle piegarsi
mentre la città era ai piedi
degli estorsori
di Pietro Giovanni
Gaetano Paolo e Giuseppe
che seppero dire di no

Ricordati del medico Paolo
che non volle attestare il falso
di Giovanni che denunciò
gli ordinari misfatti
sulle scrivanie della regionehn

Ricordati di Rita
che non volle più vivere
perché avevano ucciso
la speranza

Ricordati di Giorgio
di Costantino
di Stefano
di Pino
preti di un Cristo quotidiano
fratello degli ultimi
crocifisso dai potenti

Ricordati di Giuseppe
di Domenico
di Filippo
sangue ancora vivo
nomi che dobbiamo ancora aggiungere
al nostro rosario di morti

Ricordati di ricordare
i nomi delle vittime
e i nomi dei carnefici
(i notissimi ignoti
di ieri e di oggi)
perché tutte le vittime
siano strappate alla morte
per dimenticanza
e i carnefici sappiano
che non finiremo mai
di condannarli
anche se hanno avuto
mille assoluzioni

Ricordati di ricordare
le impunità
le protezioni
le complicità
gli interessi
che hanno fatto
di una banda di assassini
i soci del capitale
e i gemelli dello Stato

Ricordati di ricordare
ora che le bombe degli attentatori
scuotono le città
che vogliono affrancarsi
e sui teleschermi della seconda repubblica
si intrecciano i segnali
delle nuove alleanze

Ricordati di ricordare

quanto più difficile è il cammino
e la meta più lontana

perché

le mani dei vivi

e le mani dei morti

aprono la strada

Umberto Santino
Luglio 1994 – ottobre 2000

 

 

 
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Sorridere e cambiare il mondo

 

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Cari compagni, care compagne.
 Sono un po’ di giorni che cerco di
srotolare il groviglio
 di emozioni e tensioni che si annoda
nella bocca dello stomaco, pensando a quali parole usare per dirvi che non sono
nascosto fra queste righe, ma sto li’ con voi, all’aria libera e liberata delle
vie di Roma.
Per dirvi che Renato lo ricordiamo in tutte le latitudini  per ribardirvi che il fascismo si maschera in
cento e uno modi: nei discorsi stupidi del coatti, nelle manie annoiate dei
pariolini, nella violenza di genere che infesta anche i movimenti di
liberazione, nelle divise che pattugliano le citta’, nei paramilitari che
sgomberano le comunita’ contadine, nelle cupole del potere, della borsa, negli
yacht degli assassini che depredano il nostro pianeta. Mi sento impacciato e
stretto fra queste parole, perche’ certi ricordi corrono liberi, a cascata,
come torrenti per le montagne.
Volevo solo fermarmi un attimo a ricordare Renato. Renato  che per me e’ Renato delle feste o Renato de
Pirateria, che per qualcun’altro e’ Renato delle partite di calcio al
Cinodromo, o Renato che suona, o Renoiz; o Renato, l’amore della vita, Renato
con gli occhi belli, Renato l’amico d’infanzia. Ognuno, ognuna, ha il suo
Renato.  Pero’ poi c’e’ un Renato di tutti, di tutte. Un Renato
gigante  che non perde l’umanita’ o la sua bellezza originale e specifica
ma che trascende se stesso per diventare esperienza collettiva.
Renato come simbolo di lame che non vogliamo piu’ vedere, di storie e connubi
che devono sparire dalle cronache, dalle strade, dalla storia.
Renato nel quale molti e molte ci siamo identificati senza forzature, perche’
Renato, come Antonio, e’ lo stendardo del sorriso, della vita, della militanza
solare contro la tristezza della rassegnazione e la violenza della barbarie.

Renato e’ gia’ memoria collettiva, gia’ s’e’ moltiplicato ed
aperto in una pioggia di sorrisi, di pugni chiusi, di riunioni, di striscioni,
di feste, di cordoni, di abbracci e di baci. Renato e’ una corrente nelle
grandi mareggiate del movimento, dei movimenti.
Adesso che leggete queste righe sto in una comunita’ indígena e contadina, una
delle tante che, autogestita e ribelle, resiste all’avanzata devastante del
neoliberismo. Con altre parole di un’altra lingua, stiamo ricordando Renato.
Con altre lotte, continuiamo a tessere la memoria viva del cambiamento che
auspichiamo e costruiamo.
Questa memoria collettiva c’impone una responsabilita’ ancora piu’ grande di un
semplice, dovuto e malinconico ricordo. Impone una scelta senza mezzi termini
che giustifica una vita da pazzi, che giustifica le botte, gli agguati, il
carcere e tutte quelle grigezze che incombono sulle scelte colorate ed abbaglianti
che facciamo. La memoria collettiva, questo meccanismo complesso in cui ognuno
e’ attore o attrice, ci costringe a darci dentro a piu’ non posso. A non
rendere inutile altro sangue, perche’ altrimenti non avrebbe veramente senso
andarsene cosi’, in una bella notte d’estate.
Che la paura non ci paralizzi, compagni, compagne: vogliamo mettere quanto dura
il guizzo d’una lama infame con il riverbero eterno delle stelle, per le quali
lottiamo?
Come gia’ ha scritto qualcuno, un occhio all’immediato e l’altro all’infinito.
Nell’infinito, nel mondo piu’ giusto, nelle pratiche altre che faticosamente
stiamo provando c’e’ Renato. C’e’ anche Antonio, ci sono i partigiani, i Dakota
che si vendicarono su Custer, i bambini minatori dell’800 di Marx e del 2000
nell’Afghanistan di Bush, le streghe bruciate nel Medioevo e tutte le felici
anomalie che hanno fatto si’ che il mondo non sia una triste landa grigia,
dolente e sottomessa.
Vabbe’ riga’. 
In fondo volevo solo dire che ormai Renato ce lo portiamo cucito nell’anima e nella
bandiera e che c’e’ solo un modo per non dimenticarlo mai:

sorridere e cambiare il mondo.

Un forte abbraccio a tutte e tutti.
Vostro Fazio

 

Messico, 28 agosto 2009

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Quella notte Renato Biagetti fu ucciso dai fascisti

Quella notte Renato Biagetti fu ucciso dai fascisti
Daniele Nalbone

Fonte: Liberazione, 29 agosto 2009
29 agosto 2009


Sono passati tre anni da quando, il 27 agosto del 2006, Renato, Laura e
Paola, uscendo da una dance hall reggae sulla spiaggia di Focene, sul
litorale romano, furono aggrediti da due giovani fascisti, scesi dalla
loro auto coltelli alla mano.
«Tornatevene a casa, questo non è il vostro territorio, zecche di
merda» gli urlarono. Sulle braccia i due ragazzi avevano tatuati i
segni del fascismo, del duce, di un’ideologia che non accetta il
diverso, l’altro.
Con otto coltellate, di cui tre mortali al cuore e al polmone,
colpirono Renato che, a 26 anni, morirà poche ore dopo in ospedale.
Quella fu l’ennesima aggressione di un anno, il 2006, che a Roma si
concluse con oltre 130 aggressioni di matrice fascista. Sono trascorsi
tre anni da quando una mano fascista ci ha portato via il sorriso e gli
occhi di Renato.
Ieri, per ricordarlo, l’appuntamento per tutti è stato nel tardo
pomeriggio nel Parco Schuster, a ridosso della basilica di San Paolo,
con banchetti informativi, video, parole e un concerto concluso da
Ascanio Celestini.
«Sono passati tre anni» ricordano i compagni del centro sociale
Acrobax, «e ogni volta che ci troviamo a ricordare questo episodio a
farci rabbia è il fatto che i due assassini fossero dei ragazzini
imbevuti di una cultura mortifera e assassina». Una cultura che, nella
Roma ieri di Veltroni e oggi di Alemanno, non accenna a diminuire:
troppe, e sempre più violente, sono state le aggressioni che hanno
insanguinato la Capitale negli ultimi mesi.
Dai pestaggi a Tor Bella Monaca ai danni di cittadini immigrati che
hanno portato, in ordine di tempo, un ragazzo cinese, un commerciante
pakistano, uno studente senegalese e un giovane bengalese in ospedale a
lottare fra la vita e la morte, all’aggressione ai danni di un
rifugiato politico di origine congolese che, un mese fa, è stato
massacrato di botte nella zona di Monteverde da tre persone solo perché
colpevole di averli infastiditi distribuendo dei volantini.
Insieme a questi casi di intolleranza razziale, non possiamo non
ricordare le aggressioni e gli attentati incendiari ai danni della
comunità omosessuale, ultimi i casi di Dino e Vincenzo, feriti
all’uscita del Gay Village, e del fuoco appiccato al Qube, storico
locale dove ogni venerdì si svolge la serata Muccassassina. Potremmo
continuare all’infinito a elencare gli atti intimidatori e violenti
della destra romana che da un anno e mezzo a questa parte, dal giorno
dei saluti romani sulle scale del Campidoglio durante i festeggiamenti
per Alemanno Sindaco, denotano un’assurda idea di impunità presente fra
i gruppetti più o meno organizzati dietro aquile romane e fasci littori
tatuati.
«Zecche di merda, vi uccidiamo»: questo il grido con cui, coltelli alla
mano, proprio un anno fa, esattamente a margine della festa in ricordo
del il secondo anniversario dall’omicidio di Renato Biagetti, un gruppo
di fascisti ha aggredito alcuni compagni.
Un vero e proprio agguato, per far capire a chi ancora si ostinava a
definire "rissa tra balordi" quella di tre anni fa a Focene, che i
fascisti a Roma ci sono, e sanno come insanguinare le strade.
Perché quello di un anno fa non fu un gesto isolato ma un’aggressione
studiata nei minimi termini: dieci camerati, armati di coltelli e
catene, contro quattro compagni. Risultato: un ragazzo ricoverato per
le ferite riportate da tre coltellate, il tutto condito da un bel
calcio in piena faccia mentre era steso in terra. Un gesto che sa, a
distanza di un anno, di rivendicazione fascista di quanto accaduto il
27 agosto 2006. Questa è Roma oggi: una città dove si può essere
accoltellati o massacrati di botte solo per il fatto di essere gay o
neri, lesbiche o clandestine. Spesso "zecche". Dove si può morire
uscendo da una dance hall o essere accoltellati nelle vie intorno a una
festa omosessuale. Dove qualcuno può arrivare a scrivere "Via Rasella:
partigiano terrorista", come accaduto lo scorso 27 luglio, sui muri
della sede nazionale dell’Anpi, a Roma, senza che nessuno ne paghi le
conseguenze. Una città in cui è definito, dal suo primo cittadino,
«gesto vandalico» perché «non si deve parlare di città razzista»
entrare in venti a Villa Gordiani, nottetempo, armati di spranghe e
bastoni e distruggere, al grido di «sporchi negri», gli stand in
allestimento per la festa del capodanno Bengalese. In cui essere
massacrati di botte da un gruppo di giovani, spesso minorenni, italiani
viene definito "bullismo".
Dove per parlare di omofobia un giovane omosessuale deve rischiare la
propria vita. Dove morire per otto coltellate inferte a freddo da due
fascisti è solo una "rissa tra balordi". Per questo è necessario non
dimenticare ed essere presenti fra la gente, per le vie della città,
come ieri pomeriggio a Parco Schuster: per ricordare Renato,
«raccontare la sua aggressione che si lega a quelle decine che
avvengono a Roma» ma anche per far vivere i suoi sogni «e lo faremo»
spiegano i ragazzi del centro sociale Acrobax «attraverso quello che
lui più amava: la musica».

 
 
 
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I sogni di Paolo

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L’11 luglio del 2005 veniva barbaramente ucciso con
bastonate e coltellate nel Pratone delle Valli , Paolo Seganti , solo perché
gay. Le responsabilità di questo crimine non sono ancora state accertate.

Il 26 agosto del 2006 viene accoltellato sulla spiaggia di
Focene all’uscita da un concerto reggae, Renato Biagetti, perché ritenuto una
“zecca comunista” da due giovani che portavano tatuati  i simboli di un’ideologia fascista.

Il Comitato Madri per Roma Città Aperta, costituitosi
intorno a Stefania, madre di Renato, aderisce all’iniziativa Candle light, venerdì 10 luglio 2009, ore
22.00Gay Street, via di San Giovanni in Laterano
in ricordo di Paolo
Seganti, ucciso come Renato, perché 
ritenuto “diverso”.

Gli assassinii di Paolo e di Renato, le aggressioni e
ferimenti a carattere discriminatorio, razzista 
e di intolleranza politica, hanno segnato e continuano a segnare la vita
quotidiana della nostra città riducendo gli spazi di libertà e di democrazia di
ogni cittadino.

Nell’anniversario della morte di Paolo confermiamo il nostro
impegno contro ogni forma di intolleranza 
politica, di razza, di genere, di orientamento sessuale, e  sottolineiamo la forza generatrice di Augusta,
madre di Paolo che ha portato alla creazione di un numero verde a sostegno
della lotta contro l’omofobia e transfobia.

Una forza che ha trasformato il dolore della perdita in un
energia vitale che possa ridare vita ai sogni di Paolo, così come quella di
Stefania ai sogni di Renato.

 

Comitato Madri per Roma città Aperta

Venerdì 10 luglio 2009

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Arresti a Roma per il G8

In occasione dell’apertura del G8,
a Roma sono stati eseguiti 35 fermi trasformati in arresti per 10 ragazzi,
trasferiti in carcere a Regina Coeli e a Rebibbia, a cui sono stati contestati
i reati di danneggiamento, resistenza e lesioni. Il comportamento delle forze
dell’ordine è stato assolutamente premeditato e organizzato  nelle sedi istituzionali, come confermato
dalle stesse parole del Ministro degli Interni, e finalizzato a fermare e
intimidire più persone possibile durante lo svolgimento del G8 dell’Aquila.
Nel nostro paese dove è possibile stuprare ed ottenere gli arresti domiciliari,
si viene invece trasferiti in carcere per essere stati presenti ad una
manifestazione ed essere strattonati dalle forze dell’ordine.
La misura abnorme degli arresti dimostra una volontà sempre più evidente di
annullare ogni forma di protesta e di dissenso, nella nostra città e nel nostro
paese, come dimostrano anche gli arresti per il G8 dell’Università a Torino o
il massiccio dispiegamento di forze per la manifestazione di Vicenza contro la
base americana.
Noi Madri per Roma Città Aperta esprimiamo tutta la nostra preoccupazione per
il totale silenzio delle istituzioni, della politica e degli organi di
informazione sui temi di confronto del G8 e sul dissenso ad esso, ma non solo,
alle condizioni di lavoro nel nostro paese, alle lotte per i diritti e i beni
comuni,  e di come questo silenzio sia
riempito dal solo "controllo della piazza" con cabine di comando
fuori da ogni controllo dei cittadini.

Madri per Roma Città Aperta
8 luglio 2009

Pubblicato in Comunicati | Commenti disabilitati su Arresti a Roma per il G8

‘Cara Stefania prendo la matita nelle mie mani e ti scrivo’

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‘Cara Stefania prendo la matita nelle mie mani e ti scrivo’

Così comincia la breve lettera di
un alunno della II F, scuola media Enrico Medi, Torbellamonaca, scritta, come
le altre della stessa classe, dopo l’incontro con Stefania.

5 maggio ore 10, secondo
appuntamento, questa volta nella sede di via Merlini.                .

Il giorno precedente, mentre
guardavo distrattamente il tg regionale, mi erano apparse le immagini della
strada che ormai abbiamo imparato a conoscere, con il bar l’edicola la rotatoria
che portano alla Enrico Medi. Scatta l’ attenzione per la telecamera che
inquadra i palazzoni e i volti di alcune passanti che raccontano e commentano
l’ennesima aggressione contro un gruppo di stranieri, moldavi questa volta, un
ragazzo in ospedale.

Ne parlo con Stefania in
macchina, ci sentiamo come se volessimo svuotare il mare con un secchiello.

Eppure..

‘io ti ringrazio per essere venuta qui, per averci raccontato la storia
di tuo figlio’
scrive Giorgia G.

 

Anche in questa sede faremo due
turni nel piccolo teatro, allestito nel tempo da alunni e insegnanti. Al primo
turno partecipa la II F. Durante
il secondo turno l’insegnante, in classe, li farà riflettere e lavorare. Quelle
che riportiamo sono testimonianze del loro lavoro.

 Stessi nei due turni il vociare, l’agitazione,
i battibecchi che scompaiono all’istante quando comincia a scorrere la
fotostoria di Renato. E’ la conferma che quelle foto,  foto di quotidianità, parlano un linguaggio
che è anche il loro, descrivono situazioni in cui si ritrovano e che li toccano,
che rendono quasi tangibile un ragazzo che non conoscono.

 

 Scriverà 
Michela P.

‘ Passi di scuola in scuola

E parli e poi riparli.

Ci racconti della tua storia

E noi vediamo

Nei tuoi occhi tanto dolore.

Ti viene da piangere

Ma non lo fai ti fai coraggio

Perché vedi noi, ragazzi

Che ti fanno ricordare Renato

Un ragazzo con occhi celesti,

bello come il sole

con tanta voglia di vivere

e di andare avanti. ‘

 

Le parole di Stefania suscitano
domande a raffica, soprattutto su cosa ha fatto lei – la madre – il fratello,
gli amici. Il loro mondo, insomma. Nessun interrogativo su le responsabilità,
su la giustizia, sul mondo degli adulti.

‘Quando parlavi dentro di me c’era un sentimento di tristezza di
dispiacere’
scrive Thomas T. e non si fa fatica a crederlo pensando ai loro
visetti seri, di chi si confronta con un evento drammatico come la morte di
Renato.

Dice Giorgia P. ‘Quando lei ha detto la storia di Renato ho
provato a mettermi nei suoi panni ma non ci sono riuscita perché non ho il coraggio
che ha lei’.

 Ma quei visi seri raccontano anche altre cose

‘Ho capito che è difficile vivere senza un figlio, raccontare in tutte
le scuole la sua tragedia’
scrive Andrea E.

 

Scatta la solidarietà, la
protezione:

‘Per me sei una mamma speciale’ (Fabio M.)

‘Non ti preoccupare che Renato sta sempre accanto a te’ (Azzurra)

‘ Sei una brava mamma e sei riuscita a sfogarti andando per le scuole a
raccontare l’accaduto, e questo fa bene anche a noi’
(Luis P.)

 

Ma qualcuno va anche oltre,
percepisce un messaggio per quanto difficile, soprattutto in questa parte della
città:

‘Oggi, giorno 5/05/09, il tuo coraggio è la nostra forza. Grazie per
averci fatto capire che esiste la parola Amore non smettere mai di essere come 6’
(Michela P.)

‘Lei continui a vivere la sua vita ricordando Renato, perché lui è
vicino a lei. E poi continui a lottare, tanto ce la farà, però lei la vittoria
l’ha già conquistata, moralmente per me lei ha già vinto’
(Antonio B.).

 

Altri fanno proprio il messaggio
di Stefania, lo concretizzano in speranza per il futuro:

‘Io spero che quando avrò dei figli non gli succeda quello che è
successo a suo figlio Renato’
(Leone A.)

‘Mi dispiace per l’accaduto, le sue parole mi hanno colpito nel cuore.
La aiuterò a espandere quello che ha detto a gli altri….vorrei che in Italia
non ci fossero koatti’
(Mohamed B.)

 

Alcuni azzardano un giudizio
generale:

‘Tutto quello che è successo a Renato è molto triste perché quelle
persone che hanno ucciso Renato ci dovevano pensare perché non si può uccidere
una brava persona per qualche partito politico, ognuno ha la sua idea’

(Alessandro H.)

 

Ma c’è anche chi Stefania non è
riuscita a convincere e lo scrive apertamente:

‘Io al suo posto signora Stefania li ucciderei tutti e due così pure i
loro genitori capiscono quello che hanno fatto i loro figli’
(Sebastian T.).

 

Qualcuno dà spazio alla sua vena
poetica, come Nazire A. che commenta così l’incontro

‘le rose sono rosse

Le violette sono blu

Renato resterà nei nostri cuori come i suoi ricordi’

Qualcun altro si dimentica di
firmare quanto ha scritto oppure preferisce disegnare, con lo stile
coloratissimo di un ‘graffiti-writer’, il linguaggio dei muri e della sfida ma
i concetti sono chiari.

 

Chi l’ha detto che a
Torbellamonaca conoscono solo il linguaggio delle spranghe e dei coltelli?

 

Anche i silenzi parlano e nel
secondo turno della mattina questa regola viene rispettata. Notiamo che è un
silenzio pesante, difficile da spezzare. Una frase bisbigliata: ‘non vogliamo
far soffrire Stefania con le nostre domande’. Soffrire o ferire? In prima fila
un ragazzo fra i più grandicelli indossa una maglietta con una frase
inquietante sui vili. Alla fine dell’incontro Stefania, abbracciandolo,la
commenta. Il ragazzino le sorride in modo disarmante, ‘ma che cavolo m’ha comprato
mia madre!’ dice. Già, le madri. Anche i due assassini di Renato hanno madri.

Ci salutiamo.

Le parole di Eleonora M. parlano
al nostro posto

 

Io ho capito che il suo dolore è un dolore che non passerà mai.

E’ un dolore ma non un dolore comune, è la perdita di un figlio.

E’ sapere che prima vi salutavate, e poi non vi vedrete mai più.

E’ sapere che sono stati due ragazzi ad ucciderlo..

Ma riportare la memoria di un figlio, da scuola in scuola e dire: non
portate avanti la violenza

Ma siate saggi

E non tirate fuori armi

Perché faranno solo male,ma portate avanti la saggezza

E mai poi mai la violenza

È molto importante

 

 

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Le madri tornano a scuola: Una mattina a Torbella

 

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L’appuntamento è per martedì 28 aprile, alle 10, scuola
media Enrico Medi, Torbellamonaca. Partiamo, Stefania e Lalla, un’ora prima
come se dovessimo andare fuori Roma e invece è solo per paura del traffico.
L’appuntamento l’abbiamo concordato con gli insegnanti in un incontro
affettuoso e partecipato quando abbiamo proposto ‘l’albero di renato’, un
piccolo progetto che parlasse di giustizia e nonviolenza. Ma i ragazzi – ci
chiediamo mentre andiamo – come saranno, come ci accoglieranno e soprattutto
riusciremo a farci capire? L’inizio non è dei migliori, sbagliamo posto;
l’incontro non è in centrale ma in una sede staccata. La troviamo, ha un
aspetto accogliente, intorno un giardino curato e altri edifici scolastici. Ci
aspettano ma le classi che parteciperanno all’incontro sono cresciute, dovremo
fare due turni. Hanno preparato, con la giusta regia degli insegnanti, dei
cartelloni con poesie, commenti, disegni. Mentre i ragazzi cominciano ad entrare,
vocianti, curiosi ed attenti li leggiamo. Stefania  commenta con emozione.

‘Vi raccontiamo una storia, una storia che non ha un lieto
fine, la storia di un ragazzo che amava la vita, la musica e un mondo migliore’.
Sullo schermo la fotostoria di Renato. All’inizio qualche risatina, la domanda
di chi non ha ancora capito di che cosa si tratta, poi un silenzio intenso e
interrogativo. Tocca a Stefania continuare il discorso, parlare di quel
maledetto giorno in cui la vita di Renato si è spenta. Non è semplice dominare
il fiume delle emozioni e trovare le parole giuste per spiegare che hanno
spento la vita ma non  i sogni di Renato.
Trovare le parole giuste per spiegare i motivi del rifiuto della violenza,
trovare le parole per spiegare come un dolore così grande deve portare ad
affermare le ragioni della vita. Spiegare insomma perché siamo lì con loro.
Stefania le parole le trova e, pian piano, i ragazzi parlano, trovano anche
loro le parole per porre domande. Vogliono sapere se Renato era solo, cosa è
successo a chi lo ha colpito, parlano della violenza che attraversa la loro
parte di città, sul campo di calcetto o per strada. Stefania vuole conoscere un
ragazzo in particolare, si firma ‘un ragazzo rumeno’ , non vuole leggere quel
che ha scritto, lo fa Stefania per lui

 

Poesia
a Renato
oh Renato sei morto perche’ ti hanno scambiato per uno di sinistra, ma molta
gente nera, di razza o nazionalita’ diversa viene maltrattata ogni giorno.
Anche chi ha una religione diversa, come gli ebrei, non hanno avuto una sorte
molto buona.
Questo mondo sta sempre peggiorando. Tutti ti vogliono dimostrare qualcosa, che
sono migliori e superiori agli altri. Ma alla fine a cosa serve?
Spero che la tua morte mandi un messaggio ai ragazzi razzisti a chi odia le
diversita’. riposa in pace…

Un applauso, liberatorio, conclude la lettura e l’incontro.

 Il secondo gruppo è
già pronto ad entrare. 

Ritorniamo a raccontare la storia di Renato, qualche
risatina quando Renato bacia Laura, ma si capisce che è un modo per misurarsi
con una dimensione che già sognano e in cui si identificano. E poi di nuovo
Stefania che riporta il discorso su cos’è giustizia e tolleranza. C’è un
ragazzo, poco più di un bambino, che la incalza chiedendole che cosa ha fatto
davanti al figlio morto e un altro che chiede perché Renato non si è difeso.
L’argine si rompe e un gruppo di agguerriti le dice francamente che loro
avrebbero risposto con altri coltelli, ‘così quelli avrebbero provato quello
che ha provato lei’. Un’insegnante interviene mettendoli davanti alla logica
conclusione dei loro discorsi, stanno prefigurando la faida. Accettano la sfida
e una ragazza ammette che ‘ sì, per quello che dice Stefania ci vuole coraggio
ma lei quel coraggio non ce l’ha, meglio una risposta  dura e basta’. L’insegnante insiste, chiede
se per loro devono esistere diritti e tolleranza per tutti. Io aggiungo: come
dice l’articolo 3 della Costituzione. L’espressione dubbiosa sul bel viso
schietto della ragazza mi fa capire che non sa di cosa sto parlando. Tutti
vogliono dire la loro, le voci si sovrappongono, il tempo è finito. Un
insegnante  sussurra che mai li ha visti
discutere con tanta passione. Mentre esce, una ragazza piccolina si avvicina a
Stefania e le dice: signora, io la capisco, le voglio bene.

Ragazzi, anche noi vi capiamo anche se non siamo d’accordo
su tutto. Capiamo che vi dovete misurare con un mondo che non ha rispetto delle
persone, dove spesso è la forza l’unico valore e mancano solidarietà e
fratellanza. E vi vogliamo un mondo di bene. Proprio per questo vogliamo che
Renato non rimanga solo il ragazzo di una mattina ma possa crescere dentro di
voi. Vogliamo piantare un albero che porti il suo nome e che voi possiate
riconoscerlo ogni volta che ci passerete vicino. Noi speriamo di rincontrarvi e
parlare ancora a lungo.

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La prossima settimana andremo nell’altra sede. Il viaggio
continua.  

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