Sono passati tre anni da quando, il 27 agosto del 2006, Renato, Laura e
Paola, uscendo da una dance hall reggae sulla spiaggia di Focene, sul
litorale romano, furono aggrediti da due giovani fascisti, scesi dalla
loro auto coltelli alla mano.
«Tornatevene a casa, questo non è il vostro territorio, zecche di
merda» gli urlarono. Sulle braccia i due ragazzi avevano tatuati i
segni del fascismo, del duce, di un’ideologia che non accetta il
diverso, l’altro.
Con otto coltellate, di cui tre mortali al cuore e al polmone,
colpirono Renato che, a 26 anni, morirà poche ore dopo in ospedale.
Quella fu l’ennesima aggressione di un anno, il 2006, che a Roma si
concluse con oltre 130 aggressioni di matrice fascista. Sono trascorsi
tre anni da quando una mano fascista ci ha portato via il sorriso e gli
occhi di Renato.
Ieri, per ricordarlo, l’appuntamento per tutti è stato nel tardo
pomeriggio nel Parco Schuster, a ridosso della basilica di San Paolo,
con banchetti informativi, video, parole e un concerto concluso da
Ascanio Celestini.
«Sono passati tre anni» ricordano i compagni del centro sociale
Acrobax, «e ogni volta che ci troviamo a ricordare questo episodio a
farci rabbia è il fatto che i due assassini fossero dei ragazzini
imbevuti di una cultura mortifera e assassina». Una cultura che, nella
Roma ieri di Veltroni e oggi di Alemanno, non accenna a diminuire:
troppe, e sempre più violente, sono state le aggressioni che hanno
insanguinato la Capitale negli ultimi mesi.
Dai pestaggi a Tor Bella Monaca ai danni di cittadini immigrati che
hanno portato, in ordine di tempo, un ragazzo cinese, un commerciante
pakistano, uno studente senegalese e un giovane bengalese in ospedale a
lottare fra la vita e la morte, all’aggressione ai danni di un
rifugiato politico di origine congolese che, un mese fa, è stato
massacrato di botte nella zona di Monteverde da tre persone solo perché
colpevole di averli infastiditi distribuendo dei volantini.
Insieme a questi casi di intolleranza razziale, non possiamo non
ricordare le aggressioni e gli attentati incendiari ai danni della
comunità omosessuale, ultimi i casi di Dino e Vincenzo, feriti
all’uscita del Gay Village, e del fuoco appiccato al Qube, storico
locale dove ogni venerdì si svolge la serata Muccassassina. Potremmo
continuare all’infinito a elencare gli atti intimidatori e violenti
della destra romana che da un anno e mezzo a questa parte, dal giorno
dei saluti romani sulle scale del Campidoglio durante i festeggiamenti
per Alemanno Sindaco, denotano un’assurda idea di impunità presente fra
i gruppetti più o meno organizzati dietro aquile romane e fasci littori
tatuati.
«Zecche di merda, vi uccidiamo»: questo il grido con cui, coltelli alla
mano, proprio un anno fa, esattamente a margine della festa in ricordo
del il secondo anniversario dall’omicidio di Renato Biagetti, un gruppo
di fascisti ha aggredito alcuni compagni.
Un vero e proprio agguato, per far capire a chi ancora si ostinava a
definire "rissa tra balordi" quella di tre anni fa a Focene, che i
fascisti a Roma ci sono, e sanno come insanguinare le strade.
Perché quello di un anno fa non fu un gesto isolato ma un’aggressione
studiata nei minimi termini: dieci camerati, armati di coltelli e
catene, contro quattro compagni. Risultato: un ragazzo ricoverato per
le ferite riportate da tre coltellate, il tutto condito da un bel
calcio in piena faccia mentre era steso in terra. Un gesto che sa, a
distanza di un anno, di rivendicazione fascista di quanto accaduto il
27 agosto 2006. Questa è Roma oggi: una città dove si può essere
accoltellati o massacrati di botte solo per il fatto di essere gay o
neri, lesbiche o clandestine. Spesso "zecche". Dove si può morire
uscendo da una dance hall o essere accoltellati nelle vie intorno a una
festa omosessuale. Dove qualcuno può arrivare a scrivere "Via Rasella:
partigiano terrorista", come accaduto lo scorso 27 luglio, sui muri
della sede nazionale dell’Anpi, a Roma, senza che nessuno ne paghi le
conseguenze. Una città in cui è definito, dal suo primo cittadino,
«gesto vandalico» perché «non si deve parlare di città razzista»
entrare in venti a Villa Gordiani, nottetempo, armati di spranghe e
bastoni e distruggere, al grido di «sporchi negri», gli stand in
allestimento per la festa del capodanno Bengalese. In cui essere
massacrati di botte da un gruppo di giovani, spesso minorenni, italiani
viene definito "bullismo".
Dove per parlare di omofobia un giovane omosessuale deve rischiare la
propria vita. Dove morire per otto coltellate inferte a freddo da due
fascisti è solo una "rissa tra balordi". Per questo è necessario non
dimenticare ed essere presenti fra la gente, per le vie della città,
come ieri pomeriggio a Parco Schuster: per ricordare Renato,
«raccontare la sua aggressione che si lega a quelle decine che
avvengono a Roma» ma anche per far vivere i suoi sogni «e lo faremo»
spiegano i ragazzi del centro sociale Acrobax «attraverso quello che
lui più amava: la musica».
Links
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